La NanoArte ha oltrepassato le arti visive? La domanda si pone necessariamente di fronte alle dimensioni di un’opera come Dimensione attuale, un’Africa delle dimensioni di 300 x 280 nanometri, litografata su un wafer di silicio. Per dare dei termini di paragone, o dei riferimenti, basta pensare che le cellule più piccole del nostro corpo – quelle batteriche - hanno le dimensioni di 1 micron, ossia un milionesimo di metro, mentre il nanometro è un miliardesimo di metro. Ebbene, il lato più corto di Dimensione attuale misura 280 nanometri. Se si pensa poi che l’Africa si trova su un wafer di silicio di circa due centimentri per lato, si comprende come riuscire a trovare la litografia sulla sua superficie, anche se dotati degli strumenti necessari, sia un’impresa nient’affatto semplice, se non disperata.
Il continente africano litografato è dunque inaccessibile all’occhio umano. A un’esposizione, lo spettatore vede solamente la placchetta di silicio e null’altro. Eppure l’Africa c’è, semplicemente la sua esistenza non è da noi percepibile. Potremmo allora decidere di mettere il wafer sotto la lente di un microscopio ottico, ma anche in questo caso non vedremmo nulla: Dimensione attuale è talmente minuscola che nemmeno un microscopio ottico può rivelarne l’esistenza. È vero che qualche volta i ricercatori mettono dei markers – in altre parole, dei segni – per delimitare i confini entro i quali l’opera si trova, ma anche facendo ciò l’area rimane immensa, e chi fosse dotato di un FESEM – Field Emission Scanning Electron Microscope, un particolare microscopio elettreonico a scansione che è in grado di osservare oggetti di dimensioni nanometriche – si troverebbe in ogni caso a cercare un ago in un pagliaio.
Se paragonata ad una qualsiasi altra opera d’arte fino ad oggi realizzata ed esposta al pubblico, Dimensione attuale pone inevitabilmente una serie di interrogativi piuttosto inquietanti. In primo luogo, l’opera esiste davvero? Dobbiamo fidarci dell’artista? O è tutta una buffonata, una presa in giro, un divertissement, una bravata di due simpaticoni, l’ennesima, stucchevole provocazione – e nulla più - dell’arte contemporanea?
Se si parte dal presupposto che ciò che è nanometrico non si vede ad occhio nudo e tantomeno col microscopio ottico, io e Robin potremmo in teoria sostenere che su quel pezzettino di silicio c’è qualsiasi cosa: si provi a dimostrare il contrario. Certo, sarebbe una bella mascalzonata, ma le opere sono realizzate e certificate dal Politecnico di Torino, e chiunque – prendendo le necessarie precauzioni – può assistere di persona alla realizzazione dell’artefatto stesso all’interno delle camere pulite dei laboratori del Chilab o del Latemar.
Dunque gli scettici possono mettersi il cuore in pace: l’Africa si trova effettivamente sulla superficie di silicio, ma l’interrogativo rimane ancora, in questo senso: ok, l’opera c’è, ma se io non la posso vedere, esiste? Un ragionamento del genere non ha senso: equivarrebbe a negare, per esempio, l’esistenza delle cellule solo perché invisibili all’occhio umano. Bisogna chiarire infatti che se è vero che le opere sono invisibili all’occhio, non lo sono in senso assoluto: con gli strumenti adatti, e con una buona dosa di pazienza e di fortuna, si può riuscire a trovare e a vedere l’Africa.
Non c’è dubbio, in ogni caso, che Dimensione attuale - presa di per sé, e non affiancata da immagini realizzate con microscopi elettronici che ne svelano l’esistenza - provochi una sorta di imbarazzo estetico. Ma come, esporre un’opera che c’è ma non si vede? Eppure proprio lì sta il bello. Basterebbe tornare al senso dell’opera stessa - l’invisibilità dell’Africa: un dato di fatto, tanto quanto la sua effettiva, concreta esistenza – per comprendere la pregnanza della contraddizione e del paradosso. L’invisibilità, in questo caso, non è fine a se stessa, ma è funzionale al significato dell’opera. Dimensione attuale è invisibile perché così deve essere, e non per semplice sfoggio di virtuosismo.
Come esporre, allora, un’opera che non si vede? Ce lo chiediamo ogni volta che dobbiamo allestire una mostra. Per Dimensione attuale - nel caso della mostra NanoArte di Bergamo - abbiamo utilizzato un escamotage: abbiamo realizzato un campione più grande dell’opera, delle dimensione di qualche micron, e abbiamo messo questo chip sotto la lente di un microscopio ottico, mentre l’opera originale – quella nanometrica - era esposta al fianco della riproduzione ingrandita. Ciò che gli spettatori potevano osservare non era dunque l’opera originale, ma un campione con le stesse caratteristiche ma di dimensioni maggiori, e dunque visibile.
Altro significativo esempio di superamento dei limiti del visibile è rappresentato da Oltre le colonne d’Ercole, non a caso prima opera di NanoArte realizzata da me e Robin. Quella serie di impronte micrometriche impresse su un wafer di silicio volevano proprio rappresentare i primi passi dell’arte in un universo misterioso, che sebbene sia parte del nostro è tuttavia regolato da leggi spesso completamente diverse, che ci paiono paradossali, contraddittorie, assurde. È l’universo dell’infinitamente piccolo o dell’invisibile, dei quanti di materia e delle leggi che ne descrivono i comportamenti, la meccanica quantistica.
Anche dal punto di vista delle dimensioni possiamo parlare di primi passi: in confronto alle dimensioni nanometriche di Dimensione attuale, si potrebbe dire che Oltre le colonne d’ercole è un’opera gigantesca: le impronte sono grandi qualche micron, e nel complesso la passeggiata è lunga circa 2 centimetri. In ogni caso, a occhio nudo si fa fatica a vedere qualcosa: in particolari condizioni di luce si riesce a intravedere una serie di puntini che formano una linea serpeggiante, ma nulla più.
Solo le quattro immagini in bianco e nero del FESEM - esposte, nel caso del premio San Fedele di Milano, ad integrazione dell’opera - mettono in luce i dettagli: su una superficie che appare lunare si distinguono chiaramente i segni degli scarponi lasciati da qualcuno, ma non solo, si riconosce la pressione esercitata dal peso del corpo sul terreno: le impronte non sono semplicemente ‘disegnate’ sono davvero ‘impresse’, hanno profondità.
Sono anche, infine, i primi passi dell’arte oltre il limite del visibile: opere che ci sono, esistono, ma si sottraggono allo sguardo, si negano alla vista: lì, l’occhio bulimico contemporaneo non può arrivare. Costantemente bombardato da una sequenza infinita di sollecitazioni, di fronte a opere invisibili l’occhio deve arrendersi alla sua momentanea inutilità. In questo frangente, l’occhio fa epochè, sospende il giudizio.
Nonostante l’occhio venga escluso da uno dei suoi territori privilegiati, non credo che la NanoArte sia la negazione della visione. Al contrario, forse l’arte invisibile è l’invito a non fermarci solo a guardare, ma ad osservare. A non farci impressionare/suggestionare, ma a analizzare più nel dettaglio, più in profondità. L’arte invisibile è il tentativo di andare oltre la semplice, banale visione: è, forse, l’idea di uno sguardo attivo contro una visione passiva, acritica, distratta, superficiale, preconfezionata. La Nanoarte vuole sfidare, contrastare, mettere in crisi la dittatura dell’occhio e dell’immagine per proporre un diverso tipo di osservazione che non coinvolga l’occhio in prima istanza, o che non si riduca esclusivamente ad esso.
L’occhio, in fondo, non vede nulla. È il cervello che interpreta gli stimoli provenienti dall’occhio trasformandoli in immagini. Paradossalmente Dimensione attuale, o la NanoArte, o l’arte invisibile, non sono la negazione ma l’elogio, l’esaltazione della visione, ma di una visione che liberatasi dal vincolo dell’occhio, può riscoprire il ruolo di tutto ciò che, oltre e al di là dell’occhio, permette all’essere umano di vedere, e dunque di comprendere.
Il continente africano litografato è dunque inaccessibile all’occhio umano. A un’esposizione, lo spettatore vede solamente la placchetta di silicio e null’altro. Eppure l’Africa c’è, semplicemente la sua esistenza non è da noi percepibile. Potremmo allora decidere di mettere il wafer sotto la lente di un microscopio ottico, ma anche in questo caso non vedremmo nulla: Dimensione attuale è talmente minuscola che nemmeno un microscopio ottico può rivelarne l’esistenza. È vero che qualche volta i ricercatori mettono dei markers – in altre parole, dei segni – per delimitare i confini entro i quali l’opera si trova, ma anche facendo ciò l’area rimane immensa, e chi fosse dotato di un FESEM – Field Emission Scanning Electron Microscope, un particolare microscopio elettreonico a scansione che è in grado di osservare oggetti di dimensioni nanometriche – si troverebbe in ogni caso a cercare un ago in un pagliaio.
Se paragonata ad una qualsiasi altra opera d’arte fino ad oggi realizzata ed esposta al pubblico, Dimensione attuale pone inevitabilmente una serie di interrogativi piuttosto inquietanti. In primo luogo, l’opera esiste davvero? Dobbiamo fidarci dell’artista? O è tutta una buffonata, una presa in giro, un divertissement, una bravata di due simpaticoni, l’ennesima, stucchevole provocazione – e nulla più - dell’arte contemporanea?
Se si parte dal presupposto che ciò che è nanometrico non si vede ad occhio nudo e tantomeno col microscopio ottico, io e Robin potremmo in teoria sostenere che su quel pezzettino di silicio c’è qualsiasi cosa: si provi a dimostrare il contrario. Certo, sarebbe una bella mascalzonata, ma le opere sono realizzate e certificate dal Politecnico di Torino, e chiunque – prendendo le necessarie precauzioni – può assistere di persona alla realizzazione dell’artefatto stesso all’interno delle camere pulite dei laboratori del Chilab o del Latemar.
Dunque gli scettici possono mettersi il cuore in pace: l’Africa si trova effettivamente sulla superficie di silicio, ma l’interrogativo rimane ancora, in questo senso: ok, l’opera c’è, ma se io non la posso vedere, esiste? Un ragionamento del genere non ha senso: equivarrebbe a negare, per esempio, l’esistenza delle cellule solo perché invisibili all’occhio umano. Bisogna chiarire infatti che se è vero che le opere sono invisibili all’occhio, non lo sono in senso assoluto: con gli strumenti adatti, e con una buona dosa di pazienza e di fortuna, si può riuscire a trovare e a vedere l’Africa.
Non c’è dubbio, in ogni caso, che Dimensione attuale - presa di per sé, e non affiancata da immagini realizzate con microscopi elettronici che ne svelano l’esistenza - provochi una sorta di imbarazzo estetico. Ma come, esporre un’opera che c’è ma non si vede? Eppure proprio lì sta il bello. Basterebbe tornare al senso dell’opera stessa - l’invisibilità dell’Africa: un dato di fatto, tanto quanto la sua effettiva, concreta esistenza – per comprendere la pregnanza della contraddizione e del paradosso. L’invisibilità, in questo caso, non è fine a se stessa, ma è funzionale al significato dell’opera. Dimensione attuale è invisibile perché così deve essere, e non per semplice sfoggio di virtuosismo.
Come esporre, allora, un’opera che non si vede? Ce lo chiediamo ogni volta che dobbiamo allestire una mostra. Per Dimensione attuale - nel caso della mostra NanoArte di Bergamo - abbiamo utilizzato un escamotage: abbiamo realizzato un campione più grande dell’opera, delle dimensione di qualche micron, e abbiamo messo questo chip sotto la lente di un microscopio ottico, mentre l’opera originale – quella nanometrica - era esposta al fianco della riproduzione ingrandita. Ciò che gli spettatori potevano osservare non era dunque l’opera originale, ma un campione con le stesse caratteristiche ma di dimensioni maggiori, e dunque visibile.
Altro significativo esempio di superamento dei limiti del visibile è rappresentato da Oltre le colonne d’Ercole, non a caso prima opera di NanoArte realizzata da me e Robin. Quella serie di impronte micrometriche impresse su un wafer di silicio volevano proprio rappresentare i primi passi dell’arte in un universo misterioso, che sebbene sia parte del nostro è tuttavia regolato da leggi spesso completamente diverse, che ci paiono paradossali, contraddittorie, assurde. È l’universo dell’infinitamente piccolo o dell’invisibile, dei quanti di materia e delle leggi che ne descrivono i comportamenti, la meccanica quantistica.
Anche dal punto di vista delle dimensioni possiamo parlare di primi passi: in confronto alle dimensioni nanometriche di Dimensione attuale, si potrebbe dire che Oltre le colonne d’ercole è un’opera gigantesca: le impronte sono grandi qualche micron, e nel complesso la passeggiata è lunga circa 2 centimetri. In ogni caso, a occhio nudo si fa fatica a vedere qualcosa: in particolari condizioni di luce si riesce a intravedere una serie di puntini che formano una linea serpeggiante, ma nulla più.
Solo le quattro immagini in bianco e nero del FESEM - esposte, nel caso del premio San Fedele di Milano, ad integrazione dell’opera - mettono in luce i dettagli: su una superficie che appare lunare si distinguono chiaramente i segni degli scarponi lasciati da qualcuno, ma non solo, si riconosce la pressione esercitata dal peso del corpo sul terreno: le impronte non sono semplicemente ‘disegnate’ sono davvero ‘impresse’, hanno profondità.
Sono anche, infine, i primi passi dell’arte oltre il limite del visibile: opere che ci sono, esistono, ma si sottraggono allo sguardo, si negano alla vista: lì, l’occhio bulimico contemporaneo non può arrivare. Costantemente bombardato da una sequenza infinita di sollecitazioni, di fronte a opere invisibili l’occhio deve arrendersi alla sua momentanea inutilità. In questo frangente, l’occhio fa epochè, sospende il giudizio.
Nonostante l’occhio venga escluso da uno dei suoi territori privilegiati, non credo che la NanoArte sia la negazione della visione. Al contrario, forse l’arte invisibile è l’invito a non fermarci solo a guardare, ma ad osservare. A non farci impressionare/suggestionare, ma a analizzare più nel dettaglio, più in profondità. L’arte invisibile è il tentativo di andare oltre la semplice, banale visione: è, forse, l’idea di uno sguardo attivo contro una visione passiva, acritica, distratta, superficiale, preconfezionata. La Nanoarte vuole sfidare, contrastare, mettere in crisi la dittatura dell’occhio e dell’immagine per proporre un diverso tipo di osservazione che non coinvolga l’occhio in prima istanza, o che non si riduca esclusivamente ad esso.
L’occhio, in fondo, non vede nulla. È il cervello che interpreta gli stimoli provenienti dall’occhio trasformandoli in immagini. Paradossalmente Dimensione attuale, o la NanoArte, o l’arte invisibile, non sono la negazione ma l’elogio, l’esaltazione della visione, ma di una visione che liberatasi dal vincolo dell’occhio, può riscoprire il ruolo di tutto ciò che, oltre e al di là dell’occhio, permette all’essere umano di vedere, e dunque di comprendere.
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