Quella che segue è la trascrizione dell’intervista di Elisa Facchin ad Alessandro Scali e Robin Goode, pubblicata sul magazine-catalogo della mostra Astronave Torino, tenutasi al Museo Internazionale Arte Applicata Oggi (MIAAO) di Torino, a cui i due artisti hanno partecipato con l’opera dal titolo U.N.O. (Unidentified Nanometric Objects, 2007).
Pubblicitari e grafici di professione. Si sono accostati all’arte per esprimersi altrimenti, con una grande voglia di rischiare intraprendendo percorsi inesplorati. Come un tempo il grande Franco Grignani, amano l’arte come sperimentazione e metodo, ma corretto dall’ironia. La NanoArte, ossia la creazione di artefatti in scala micro e nanometrica, è una svolta recente nelle loro ricerche e li sta portando alla ribalta, perché in questo campo sono pionieri. La loro prima opera, Oltre le colonne d’Ercole, è una lastra di silicio su cui sono impresse impronte delle dimensioni di una cellula: primi passi verso lo spettacolare universo che la nanotecnologia è in grado di svelare. Sono Alessandro Scali (Torino, 1972) e Robin Goode (Capetown 1978), hanno fondato il collettivo artistico Paperkut e l’agenzia di comunicazione Kut communications. Li incontriamo nel loro studio torinese.
Come è nata l’idea di intraprendere la sfida della nanoarte?
La nostra curiosità professionale ci induce a fare ricerca, a essere avidi di novità in tutti i campi. Nel 2004, navigando in rete, ci siamo imbattuti nelle prime immagini di nanotecnologia. Siamo rimasti impressionati dalle potenzialità espressive di questa nuova frontiera della scienza, che poteva consentirci un provocatorio gioco concettuale sul superamento delle ‘arti visive’. Abbiamo elaborato un progetto di NanoArte, inviato ovunque, e complice la ‘orizzontalità gerarchica’ propria di Internet, i più grandi luminari del settore ci hanno risposto indirizzandoci verso i centri di eccellenza italiani per le nanotecnologie: Trieste e Torino, Lecce e Catanzaro.
Come è iniziata la collaborazione con il Politecnico di Torino?
Dopo aver conosciuto il professor Enzo di Fabrizio all’Università di Trieste e aver ricevuto da lui un feedback decisamente positivo circa la fattibilità e la qualità del progetto, abbiamo deciso di tentare nella nostra città, al Politecnico. Abbiamo preso contatto col professor Fabrizio Pirri del Dipartimento di Fisica, che ha formato un team, oggi composto da sei persone, e dato il via ai lavori. Dobbiamo tutto al Politecnico: noi ideiamo i temi di ricerca, quindi diamo gli ‘inventori’, ma loro li realizzano, sono gli ‘artisti applicati’…
Quali nanotecnologie utilizzate?
Diverse. Per esempio, per Oltre le colonne d’Ercole abbiamo usato la fotolitografia, per Dimensione attuale la litografia ossidativa, per Scemo chi legge la laser ablation.
Perché proprio la nanotecnologia come ‘strumento’ di produzione artistica?
Occorre precisare: noi non abbiamo deciso di opere d’arte ‘invisibili’ perché ci siamo imbattuti nella nanotecnologia. È vero il contrario: la nanotecnologia ha tutte le caratteristiche per consentirci di esprimere in modo efficace e innovativo i concetti che noi volevamo comunicare facendo arte. Nuovi punti di vista, nuovi valori, nuove letture del mondo come, per esempio, la denuncia dell’invisibilità ‘politica’ di un intero continente nel caso di Dimensione attuale, un’Africa dalle dimensioni di 300x280 nanometri. Da un lato quindi usiamo le nanotecnologie perché ci consentono una comunicazione artistica aggressiva, sintetica e impattante. Dall’altro, assegniamo un valore divulgativo al nostro lavoro altrettanto importante: le nanotecnologie sono frutto del progresso scientifico e moltissima gente è all’oscuro dei passi da gigante che la scienza ha fatto nell’ultimo secolo (basti pensare all’alone di mistero che ancora oggi avvolge la meccanica quantistica). Eppure, i mondi che le nuove tecnologie sono in grado di svelare sono terribilmente affascinanti anche per i profani. Con le nostre opere non solo ‘minori’, ma ‘minime’, addirittura ‘nanesche’ speriamo di poter creare un contatto, anche solo empatico, fra il grande pubblico e nuovi mondi scientifici ed estetici, mentre le arti ‘maggiori’ di tutto ciò se ne fottono.
Dunque l’arte come mezzo ‘popolare’ di diffusione delle conoscenze scientifiche?
Anche. Avvertiamo la necessità di fare uscire dai laboratori le conoscenze scientifiche e tecnologiche pure di alto profilo: bisogna che tutti se ne approprino, che tutti si ‘stupiscano’. Oggi noi non usiamo pennelli ma nanotecnologie, sfruttando quello che la scienza offre. Ma questo è solo l’inizio. Non vogliamo sentirci legati per forza alla nanotecnologia. Esistono tantissime altre tecnologie che vorremmo applicare artisticamente. Il nostro obiettivo è aprire un laboratorio al Politecnico dove raccogliere gli input che arrivano dai ricercatori e rielaborarli artisticamente. Una moderna versione delle antiche botteghe d’arte. A tal proposito c’è un aspetto che ci ha estremamente colpiti: esiste un lasso di tempo in cui i ricercatori testano i macchinari appena creati e lo fanno giocando (per esempio, nel caso delle nanotecnologie, creando minuscoli oggetti ‘dissacranti’). A noi piacerebbe inserirci in quella fessura fra gioco e ricerca e sfruttarla per comunicare qualcosa. Il laboratorio renderebbe stabile questo progetto e garantirebbe alle persone che hanno lavorato con noi finora di continuare a specializzarsi in questo settore ibrido, ‘tecnologico-artistico’: una figura professionale insolita, futuribile.
Alla prima esposizione di NanoArte quale reazione vi aspettavate da parte del pubblico e quale è poi effettivamente stata?
Tutto è andato come previsto: si è creata una sorta di ‘imbarazzo estetico’ per cui le persone non sapevano come rapportarsi all’opera. D’altra parte si tratta di chip di silicio appoggiati su un piedistallo e guardandoli non si vede nulla, salvo i marker che i tecnici mettono per delimitare l’ambito, immenso, in cui l’opera si trova. Lo sguardo dello spettatore corre alle didascalie e trova quiete solo quando passa agli ingrandimenti realizzati coi microscopi a scansione e certificati dal Politecnico appesi al muro. Solo fornendo le ‘prove’ si dimostra che l’opera esiste, se no potrebbe anche non esserci: un ‘paradosso estetico’ per cui lo spettatore dovrebbe ‘fidarsi’ dell’artista. Forse, per educare a questo tipo di visione, e di ‘esperienza estetica’, bisognerebbe, prima di arrivare a esporre chip e basta (che poi sarebbe tipica provocazione artistica), tentare la strada dell’interazione, esponendo anche dei microscopi ottici. Il problema è che non tutte le opere sono tanto ‘grandi’ da poter essere viste al microscopio ottico e le macchine che occorrerebbero, i microscopi elettronici a scansione FESEM, sono utilizzabili solo in laboratorio e da tecnici esperti.
Le ‘nanopere’ prodotte finora sono molto diverse le une dalle altre: Dimensione attuale è ‘impegnata’, Oltre le colonne d’Ercole è ‘fantascientifica’, Scemo chi legge è una gag. Esiste un filo conduttore?
Il filo conduttore è il gusto del paradosso, della contraddizione, dell’ironia e della sfida intellettuale. Per esempio, Scemo chi legge è emblematica: usare tecnologie per produrre ‘sciocchezze’ infatti altro non è che una metafora dell’inutilità, quando non delle pericolosità, di certa tecnologia se adottata acriticamente o speculativamente. Ma, si badi, quest’opera può essere letta come un divertissement. Per noi è molto importante che il primo livello di lettura sia immediato, poi è ovvio che a seconda del background di chi osserva le soglie interpretative si possono moltiplicare all’infinito: è la ‘semantica a gradini’…
Non credete che le potenzialità espressive della nanotecnologia possano risolversi nella dicotomia visibile-invisibile?
Sì. Infatti, poiché non vogliamo che la nostra diventi una maniera, abbiamo in mente molti nuovi progetti che coinvolgono altre tecnologie, in linea con l’idea ‘didascalica’ cui facevamo cenno prima.
Siete affascinati dalla fantascienza?
Siamo affascinati dai confini, indistinti, delle scienza. Più dai territori e dagli spazi estremi scientifici che da quelli della sola fantasia indisciplinata. Ma d’altra parte a volte le frontiere sono labili: succedono cose ‘laggiù’ che hanno leggi talmente diverse dalle nostre da apparire contemporaneramente come reali e fantastiche.
Pubblicitari e grafici di professione. Si sono accostati all’arte per esprimersi altrimenti, con una grande voglia di rischiare intraprendendo percorsi inesplorati. Come un tempo il grande Franco Grignani, amano l’arte come sperimentazione e metodo, ma corretto dall’ironia. La NanoArte, ossia la creazione di artefatti in scala micro e nanometrica, è una svolta recente nelle loro ricerche e li sta portando alla ribalta, perché in questo campo sono pionieri. La loro prima opera, Oltre le colonne d’Ercole, è una lastra di silicio su cui sono impresse impronte delle dimensioni di una cellula: primi passi verso lo spettacolare universo che la nanotecnologia è in grado di svelare. Sono Alessandro Scali (Torino, 1972) e Robin Goode (Capetown 1978), hanno fondato il collettivo artistico Paperkut e l’agenzia di comunicazione Kut communications. Li incontriamo nel loro studio torinese.
Come è nata l’idea di intraprendere la sfida della nanoarte?
La nostra curiosità professionale ci induce a fare ricerca, a essere avidi di novità in tutti i campi. Nel 2004, navigando in rete, ci siamo imbattuti nelle prime immagini di nanotecnologia. Siamo rimasti impressionati dalle potenzialità espressive di questa nuova frontiera della scienza, che poteva consentirci un provocatorio gioco concettuale sul superamento delle ‘arti visive’. Abbiamo elaborato un progetto di NanoArte, inviato ovunque, e complice la ‘orizzontalità gerarchica’ propria di Internet, i più grandi luminari del settore ci hanno risposto indirizzandoci verso i centri di eccellenza italiani per le nanotecnologie: Trieste e Torino, Lecce e Catanzaro.
Come è iniziata la collaborazione con il Politecnico di Torino?
Dopo aver conosciuto il professor Enzo di Fabrizio all’Università di Trieste e aver ricevuto da lui un feedback decisamente positivo circa la fattibilità e la qualità del progetto, abbiamo deciso di tentare nella nostra città, al Politecnico. Abbiamo preso contatto col professor Fabrizio Pirri del Dipartimento di Fisica, che ha formato un team, oggi composto da sei persone, e dato il via ai lavori. Dobbiamo tutto al Politecnico: noi ideiamo i temi di ricerca, quindi diamo gli ‘inventori’, ma loro li realizzano, sono gli ‘artisti applicati’…
Quali nanotecnologie utilizzate?
Diverse. Per esempio, per Oltre le colonne d’Ercole abbiamo usato la fotolitografia, per Dimensione attuale la litografia ossidativa, per Scemo chi legge la laser ablation.
Perché proprio la nanotecnologia come ‘strumento’ di produzione artistica?
Occorre precisare: noi non abbiamo deciso di opere d’arte ‘invisibili’ perché ci siamo imbattuti nella nanotecnologia. È vero il contrario: la nanotecnologia ha tutte le caratteristiche per consentirci di esprimere in modo efficace e innovativo i concetti che noi volevamo comunicare facendo arte. Nuovi punti di vista, nuovi valori, nuove letture del mondo come, per esempio, la denuncia dell’invisibilità ‘politica’ di un intero continente nel caso di Dimensione attuale, un’Africa dalle dimensioni di 300x280 nanometri. Da un lato quindi usiamo le nanotecnologie perché ci consentono una comunicazione artistica aggressiva, sintetica e impattante. Dall’altro, assegniamo un valore divulgativo al nostro lavoro altrettanto importante: le nanotecnologie sono frutto del progresso scientifico e moltissima gente è all’oscuro dei passi da gigante che la scienza ha fatto nell’ultimo secolo (basti pensare all’alone di mistero che ancora oggi avvolge la meccanica quantistica). Eppure, i mondi che le nuove tecnologie sono in grado di svelare sono terribilmente affascinanti anche per i profani. Con le nostre opere non solo ‘minori’, ma ‘minime’, addirittura ‘nanesche’ speriamo di poter creare un contatto, anche solo empatico, fra il grande pubblico e nuovi mondi scientifici ed estetici, mentre le arti ‘maggiori’ di tutto ciò se ne fottono.
Dunque l’arte come mezzo ‘popolare’ di diffusione delle conoscenze scientifiche?
Anche. Avvertiamo la necessità di fare uscire dai laboratori le conoscenze scientifiche e tecnologiche pure di alto profilo: bisogna che tutti se ne approprino, che tutti si ‘stupiscano’. Oggi noi non usiamo pennelli ma nanotecnologie, sfruttando quello che la scienza offre. Ma questo è solo l’inizio. Non vogliamo sentirci legati per forza alla nanotecnologia. Esistono tantissime altre tecnologie che vorremmo applicare artisticamente. Il nostro obiettivo è aprire un laboratorio al Politecnico dove raccogliere gli input che arrivano dai ricercatori e rielaborarli artisticamente. Una moderna versione delle antiche botteghe d’arte. A tal proposito c’è un aspetto che ci ha estremamente colpiti: esiste un lasso di tempo in cui i ricercatori testano i macchinari appena creati e lo fanno giocando (per esempio, nel caso delle nanotecnologie, creando minuscoli oggetti ‘dissacranti’). A noi piacerebbe inserirci in quella fessura fra gioco e ricerca e sfruttarla per comunicare qualcosa. Il laboratorio renderebbe stabile questo progetto e garantirebbe alle persone che hanno lavorato con noi finora di continuare a specializzarsi in questo settore ibrido, ‘tecnologico-artistico’: una figura professionale insolita, futuribile.
Alla prima esposizione di NanoArte quale reazione vi aspettavate da parte del pubblico e quale è poi effettivamente stata?
Tutto è andato come previsto: si è creata una sorta di ‘imbarazzo estetico’ per cui le persone non sapevano come rapportarsi all’opera. D’altra parte si tratta di chip di silicio appoggiati su un piedistallo e guardandoli non si vede nulla, salvo i marker che i tecnici mettono per delimitare l’ambito, immenso, in cui l’opera si trova. Lo sguardo dello spettatore corre alle didascalie e trova quiete solo quando passa agli ingrandimenti realizzati coi microscopi a scansione e certificati dal Politecnico appesi al muro. Solo fornendo le ‘prove’ si dimostra che l’opera esiste, se no potrebbe anche non esserci: un ‘paradosso estetico’ per cui lo spettatore dovrebbe ‘fidarsi’ dell’artista. Forse, per educare a questo tipo di visione, e di ‘esperienza estetica’, bisognerebbe, prima di arrivare a esporre chip e basta (che poi sarebbe tipica provocazione artistica), tentare la strada dell’interazione, esponendo anche dei microscopi ottici. Il problema è che non tutte le opere sono tanto ‘grandi’ da poter essere viste al microscopio ottico e le macchine che occorrerebbero, i microscopi elettronici a scansione FESEM, sono utilizzabili solo in laboratorio e da tecnici esperti.
Le ‘nanopere’ prodotte finora sono molto diverse le une dalle altre: Dimensione attuale è ‘impegnata’, Oltre le colonne d’Ercole è ‘fantascientifica’, Scemo chi legge è una gag. Esiste un filo conduttore?
Il filo conduttore è il gusto del paradosso, della contraddizione, dell’ironia e della sfida intellettuale. Per esempio, Scemo chi legge è emblematica: usare tecnologie per produrre ‘sciocchezze’ infatti altro non è che una metafora dell’inutilità, quando non delle pericolosità, di certa tecnologia se adottata acriticamente o speculativamente. Ma, si badi, quest’opera può essere letta come un divertissement. Per noi è molto importante che il primo livello di lettura sia immediato, poi è ovvio che a seconda del background di chi osserva le soglie interpretative si possono moltiplicare all’infinito: è la ‘semantica a gradini’…
Non credete che le potenzialità espressive della nanotecnologia possano risolversi nella dicotomia visibile-invisibile?
Sì. Infatti, poiché non vogliamo che la nostra diventi una maniera, abbiamo in mente molti nuovi progetti che coinvolgono altre tecnologie, in linea con l’idea ‘didascalica’ cui facevamo cenno prima.
Siete affascinati dalla fantascienza?
Siamo affascinati dai confini, indistinti, delle scienza. Più dai territori e dagli spazi estremi scientifici che da quelli della sola fantasia indisciplinata. Ma d’altra parte a volte le frontiere sono labili: succedono cose ‘laggiù’ che hanno leggi talmente diverse dalle nostre da apparire contemporaneramente come reali e fantastiche.
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