Friday, December 19, 2008

NANOARTE: DIO E' NEI DETTAGLI / GOD IS IN DETAILS



DIO E' NEI DETTAGLI / GOD IS IN DETAILS
ALESSANDRO SCALI E ROBIN GOODE, 2008

Triangolo di circa 200 x 200 x 200 nanometri.
Diametro della pupilla dell'occhio di Dio: circa 20 nanometri.

L'opera consiste nell'aver inciso il simbolo di Dio (il triangolo con l'occhio) sulla parte più alta e quindi più piccola di una punta di un MIcroscopio a Forza Atomica.

Come nel caso delle altre opere di nanoarte, non si tratta di un fotoritocco o di un trucco, ma di una vera e propria incisione su una superficie metallica, realizzata con opportune strumentazioni.

Per dare un'idea delle dimensioni del triangolo di Dio, un lato misura circa 200 nanometri, mentre il diametro della pupilla dell'occhio si aggira sui 20 nanometri.

L'opera è stata realizzata da un team di ricercatori del NANOMED LAB, all'interno del Centro di Biotecnologie Avanzate (CBA) della Facoltà di Fisica di Genova, guidata dal prof. Ugo Valbusa.

L'immagine che vedete è una 'fotografia' della punta dell'AFM (Atomic Force MIcroscope), realizzata con un FESEM (Field Emission Scanning Electron Microscope).

NANOARTE ALLA BIENNALE DI SIVIGLIA: LA CHIAVE PER IL PARADISO

Breve video dell'opera La chiave per il Paradiso di Alessandro Scali e Robin Goode, esposta alla Terza Biennale di Arte Contemporanea di Siviglia, dal titolo YOUNIVERSE.

L'opera consiste in un cammello incastonato nella cruna di un vero ago. L'ago è collocato sotto la lente di un microscopio ottico Leica, a sua volta collegato a un video da 42 pollici.

Wednesday, December 17, 2008

Nanoarte: mai fidarsi degli artisti

Il presente saggio è pubblicato sul catalogo NanoArt, edito da Skira in occasione della mostra tenutasi a Bergamo nell'ottobre 2007. La mostra - curata da Stefano Raimondi - ha presentato per la prima volta sette opere di NanoArte di Alessandro Scali e Robin Goode, realizzate in collaborazione con il Dipartimento di fisica del Politecnico di Torino. Autore del saggio: Alessandro Scali (LSSNDR).

“Quando indaga la natura e l’universo,
lungi dal ricercare e dal trovare qualità oggettive,
l’uomo trova se stesso.”

Werner Heisenberg


Ritenere che arte e scienza siano due mondi distinti, privi di relazioni reciproche, quasi agli antipodi l’uno dell’altro è un errore. In realtà possiamo considerare arte e scienza come due individui della medesima specie ma di genere diverso, attratti reciprocamente l’uno dall’altro e impegnati congiuntamente a generare conoscenza. Altri elementi in comune emergono se si osservano i moda operandi di un artista e di uno scienziato: entrambi operano all’interno di contesti specifici, ma all’atto della ricerca tendono a trascendere l’uno i canoni estetici, l’altro i paradigmi scientifici dati. Entrambi - al contrario di quanto in genere si crede - uniscono la metodicità alla creatività: l’artista infatti compie ripetutamente e sistematicamente il gesto pittorico, lo scienziato la misura di una grandezza fisica, fino a giungere al momento dell’apertura, della rivelazione, della scoperta.
Inoltre, come l’artista opera su una forte base conoscitiva, così lo scienziato utilizza una forte componente intuitiva, o in altre parole, creativa e artistica. Sia l’arte che la scienza, infine, si propongono di rendere semplice ciò che è complesso, o intelleggibile ciò che sembra ineffabile.
Altre considerazioni di rilievo emergono se, al di là del confronto, si analizzano le influenze reciproche e le relazioni concrete tra arte e scienza.
Sotto la spinta della scienza e del progresso tecnologico, l’arte, nel corso dei secoli, ha subito profonde trasformazioni e ha conosciuto passaggi epocali. Basti pensare all’impatto che ha avuto sull’arte del XIX secolo la comparsa della fotografia; la capacità della fotografia di riprodurre fedelmente la realtà contribuì a smantellare un’idea che esisteva da secoli e che ancora oggi non smette di esercitare il suo fascino, ossia il concetto di arte come fedele riproduzione o mimesi del mondo. Quello che per gli artisti poteva essere uno scacco – un concreto problema di sopravvivenza -, si trasformò nell’opportunità di ridefinire il concetto stesso di arte, andando oltre il realismo. Lasciando alla fotografia il compito di riprodurre il reale, gli artisti – soprattutto i pittori – si volgono alla rappresentazione del mondo interiore, delle sensazioni, delle emozioni, delle differenze nella percezione. Impressionismo, astrattismo, cubismo, concettualismo sono solo alcuni dei movimenti che hanno segnato questo passaggio fondamentale nel concetto di arte, innescato dalle scoperte della scienza e della tecnica.
Il costante rapporto tra mondo dell’arte e mondo della scienza e della tecnologia si fa manifesto nell’arte contemporanea. Se oggi gli artisti possono esprimersi non solo attraverso quadri, dipinti, disegni, litografie e sculture, ma anche attraverso fotografie, film, video, installazioni multimediali, hardware e software, internet, etc..., ciò è chiaramente il risultato dell’utilizzo delle scoperte della scienza e della tecnologia nel campo dell’arte. Per l’arte la scienza non è dunque un mondo lontano e avverso ma al contrario è uno stimolo continuo, un serbatoio apparentemente inesauribile di idee e di rivoluzionarie modalità espressive.

In un’epoca come quella contemporanea, caratterizzata da continue scoperte epocali, c’è il rischio di assuefazione alla grandiosa novità: tutto è costantemente nuovo, tutto è rivoluzionario. Si rischia di non saper distinguere, tra la moltitudine di presunte innovazioni, quali siano quelle che incideranno concretamente e in modo profondo sulla nostra esistenza e quali, al contrario, non sono altro che fuochi di paglia, destinati a brillare per pochi secondi. La domanda che ci si pone, in altre parole, è se in un mondo che intende stupirci ogni giorno con l’incessante proposizione di novità scientifiche e tecnologiche, ci sia ancora qualcosa in grado di sorprenderci veramente.

Ebbene, la nanotecnologia è riuscita a sorprenderci. Solo lo stupore può descrivere la gamma di sensazioni che abbiamo provato davanti alle prime immagini di motori a reazione nanometrici utilizzati sui satelliti spaziali, oppure di fronte alle immagini di un paio di pinze talmente piccole da essere in grado di prendere un singolo atomo. Non potevamo credere ai nostri occhi quando abbiamo preso le misure del nanometro e abbiamo compreso quanto sia infinitamente piccolo rispetto alle dimensioni a cui siamo abituati. Un milione di volte più piccolo di un millimetro. Un’unità di misura che il nostro intelletto fa fatica a rappresentarsi. Ci trovavamo di fronte a qualcosa che superava la nostra fantasia: nanorobot che portavano i farmaci solo alle cellule malate, computer e memorie molecolari, talmente potenti e veloci da poter decrittare in pochi istanti qualsiasi codice, e violare anche i più sofisticati sistemi di sicurezza. Ci chiedevamo come fosse possibile che queste cose esistessero realmente e non solo nella fantasia di qualche scrittore di fantascienza, e quale fosse la ragione per cui se ne sapesse, tutto sommato, relativamente poco.
Il nostro stupore non è diminuito di fronte agli orizzonti che alcuni tra i più importanti esperti italiani del settore ci hanno descritto relativamente all’impatto della nanotecnologia sulle nostra vita, sulle nostre abitudini o sulla possibile soluzione di alcuni tra i più gravi problemi dell’umanità. Basti pensare che, come afferma il prof. Pirri nel suo saggio, “tutti i recenti progressi nelle scienze della vita, della salute, dell’alimentazione, dell’ambiente, della informazione, dei materiali e dell’energia hanno in comune lo studio e la comprensione dei fenomeni fisici e biofisici alle scale più piccole. Non vi è settore che, in prospettiva, possa sottrarsi all’indagine delle proprietà della materia a partire dalle sue strutture più minute”.

Le nanotecnologie, in sostanza, costituiscono un approccio radicalmente innovativo, che si fonda sulla comprensione e sulla conoscenza approfondita delle proprietà della materia su scala nanometrica. Su questa scala la materia presenta diverse proprietà, a volte molto sorprendenti, e le frontiere tra discipline scientifiche e tecniche sfumano, il che spiega la dimensione fortemente interdisciplinare associata alle nanotecnologie. Le nanotecnologie sono spesso descritte come potenzialmente rivoluzionarie a livello di impatto sui metodi di produzione industriale. Esse apportano possibili soluzioni ad una serie di problemi attuali grazie a materiali, componenti e sistemi più piccoli, più leggeri, più rapidi e più efficaci. Le nanotecnologie dovrebbero inoltre giocare un ruolo da protagoniste nella soluzione di problemi mondiali ed ambientali poichè consentono di realizzare prodotti e processi per usi più specifici, risparmiare risorse e ridurre il volume dei rifiuti e delle emissioni.

La seconda straordinaria scoperta che ha immediatamente seguito quella della nanotecnologia, è stata quella dell’incontro con ciò che – se così possiamo esprimerci – sta dietro alla nanotecnologia. In particolare la meccanica quantistica, un complesso di teorie fisiche elaborate nella prima metà del XX secolo che descrivono il comportamento della materia a livello microscopico. A queste dimensioni, infatti, le ipotesi alla base della fisica classica non riescono a spiegare i fenomeni osservati nel corso degli esperimenti. Ma parlare di nuove teorie è limitativo: in realtà la meccanica quantistica opera un vero e proprio stravolgimento del nostro modo abituale di osservare il mondo, presentandoci una realtà regolata da una strana logica capovolta in cui perdono consistenza le leggi fondamentali che regolano la nostra realtà quotidiana. Ed è proprio la stranezza – in alcuni casi l’assurdità – delle leggi dell’universo microfisico ad averci, ancora una volta, stupito: parliamo, per esempio, del concetto di onda di probabilità, il principio della non-località, il paradosso E.P.R. Orizzonti di ricerca che non riguardano o non interessano solo il campo della fisica, ma hanno un forte impatto sulla nostra visione del mondo, in particolare sulla filosofia e sull’arte stessa.

Questo excursus nel mondo della microfisica ci è sembrato un passaggio indispensabile per far comprendere nel modo più chiaro possibile i presupposti che hanno portato alla nascita della NanoArte. La volontà di avvicinare due mondi spesso considerati lontani come quello dell’arte e della scienza si può quindi ricondurre a due obiettivi principali. Il primo è di carattere propriamente artistico, che ha origine dalla necessità di trovare nuove modalità espressive per veicolare in modo efficace e sorprendente nuove idee, nuovi concetti e nuovi punti di vista sul mondo. Sotto questo aspetto la scienza, e in particolare la nanotecnologia, può mettere a disposizione dell’arte strumenti e tecniche all’avanguardia in grado di stravolgere le tradizionali modalità espressive. Attraverso la Nanoarte vogliamo proporre un’arte che dimostra concretamente la sua apertura al mondo, alle novità, alla società, alla cultura, alla ricerca e all’innovazione; un’arte attenta al progresso, allo sviluppo, alle nuove possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnologia: un’arte non chiusa, autoreferenziale e ripiegata su se stessa, ma al contrario aperta, dinamica, curiosa. L’obiettivo della collaborazione è cioè quello di integrare l’aspetto tecnico delle micro/nanotecnologie con un approccio concettuale, estetico e artistico, che faccia esplodere tutte le potenzialità dell’arte e delle tecnologie più avanzate.
Il secondo motivo deriva dalla volontà di avvicinare il mondo della scienza, della tecnologia e dell’innovazione alle persone comuni. All’interno dei laboratori di ricerca stanno nascendo idee e progetti rivoluzionari, che senza dubbio giocheranno un ruolo da protagonisti nel nostro futuro e cambieranno anche il nostro modo di intendere la realtà e di rapportarci ad essa. Attraverso la mediazione dell’arte queste scoperte possono uscire dal mondo circoscritto dei laboratori per diventare patrimonio comune.

Solo recentemente l’arte ha iniziato a interagire con la nanotecnologia. Da questo punto di vista, oltre a Grit Rulhand, il solo artista che si sia cimentato costantemente con strutture micro e nanometriche è Cris Orfescu. Rispetto a quella di Orfescu, la nostra idea di NanoArte è diversa. Il nostro obiettivo non si limita a riprodurre il mondo microfisico a grandi dimensioni, ma utilizza le potenzialità offerte dalle nanotecnologie come mezzo per esprimere artisticamente nuovi punti di vista, nuovi valori, nuove interpretazioni del mondo. Partiamo cioè dalla necessità di veicolare un concetto o un’idea – per esempio l’invisibilità di un intero continente nel caso di Dimensione attuale, o una sfida alle leggi di Dio in Chiave per la libertà - e laddove ritieniamo che le nanotecnologie possano essere il mezzo più efficace per esprimerli, le utilizziamo.
In altre parole le nostre non sono immagini ingrandite di un universo nanometrico pre-esistente, in cui le opere sono esse stesse parte di quell’universo. Le nostre opere sono veri e propri oggetti fisici dalle forme più svariate – animali, oggetti, interi continenti, parole – ma di dimensioni infinitesimali, il più delle volte invisibili a occhio nudo. Inoltre, grazie all’opportunità offerta dalla nanotecnologia di modificare la nanostruttura di determinati materiali, è possibile realizzare delle opere che sono visibili solo in certi punti della superficie e solo a seguito di un’interazione col pubblico. È il caso dell’opera Fiato sprecato che appare solo dopo che lo spettatore ha soffiato sulla sua superficie. Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione nell’affrontare un progetto artistico di questo tipo è la realizzazione pratica dell’idea di partenza. Da questo punto di vista, il contributo del Dipartimento di Fisica del Politecnico di Torino è stato fondamentale.

Di certo realizzare opere d’arte di dimensioni nanometriche provoca una sorta di imbarazzo estetico: alcune opere sono talmente piccole che sono invisibili ad occhio nudo. Per esempio, nel caso dell’opera Oltre le colonne d’Ercole, ciò che si vede non è altro che un quadrato di metallo di circa un centimetro di lato. Le impronte litografate sulla sua superficie sono visibili solo grazie all’ausilio di appositi strumenti. La NanoArte infrange quindi il tabù della visibilità e della percepibilità ad occhio nudo. Diventa così possibile osservare l’opera solo indirettamente, grazie all’aiuto di altri strumenti. Vi sono casi estremi in cui perfino il microscopio ottico non è di alcun aiuto per poter vedere qualcosa, e bisogna utilizzare il micoscopio elettronico a scansione.
Un caso altrettanto significativo dal punto di vista estetico è l’opportunità di creare opere che prendono vita solo quando uno spettatore interagisce con esse, come, per esempio, il già citato caso dell’opera Fiato sprecato. Queste possibilità pongono inevitabilmente una serie di interrogativi: l’arte deve essere necessariamente osservabile? È possibile parlare di opera d’arte se questa non è percepibile direttamente dai nostri sensi? E poi, nel caso di un’opera infinitamente piccola e non osservabile ad occhio nudo, chi garantisce che essa esista e che non sia invece uno scherzo di una coppia di burloni? Bisogna fidarsi dell’arte e dell’artista?

È indubbio che la possibilità di realizzare un’arte invisibile sia una sfida ad alcuni dei concetti che fondano l’esperienza estetica e che pone non pochi problemi sulle modalità di presentazione dell’opera: è opportuno presentare le opere nanometriche così come sono, invisibili? Oppure è necessario accompagnarle con delle immagini che mostrino, ingigantito, ciò che l’occhio umano non può vedere? O ancora, forse è opportuno mostrarle direttamente sotto la lente di microscopi? Sono domande che ancora oggi ci poniamo e a cui stiamo tentando di dare una risposta con questa prima mostra.

E se, per concludere, la NanoArte rappresentasse anche una sorta di inversione di tendenza dell’arte contemporanea? In un’epoca di grandeur artistica, basata sullo star system, con opere imponenti e mostre e fiere immense, forse c’è bisogno di un sano e deciso ridimensionamento. La Nanoarte è un’arte che si fa piccola, che si ridimensiona a tal punto da rendersi invisibile all’occhio umano. Il fatto che non si veda non significa che non esista.
Per dirla con una battuta, siamo per un’arte che non dia troppo nell’occhio.


Arti maggiori, minori, minime

Quella che segue è la trascrizione dell’intervista di Elisa Facchin ad Alessandro Scali e Robin Goode, pubblicata sul magazine-catalogo della mostra Astronave Torino, tenutasi al Museo Internazionale Arte Applicata Oggi (MIAAO) di Torino, a cui i due artisti hanno partecipato con l’opera dal titolo U.N.O. (Unidentified Nanometric Objects, 2007).

Pubblicitari e grafici di professione. Si sono accostati all’arte per esprimersi altrimenti, con una grande voglia di rischiare intraprendendo percorsi inesplorati. Come un tempo il grande Franco Grignani, amano l’arte come sperimentazione e metodo, ma corretto dall’ironia. La NanoArte, ossia la creazione di artefatti in scala micro e nanometrica, è una svolta recente nelle loro ricerche e li sta portando alla ribalta, perché in questo campo sono pionieri. La loro prima opera, Oltre le colonne d’Ercole, è una lastra di silicio su cui sono impresse impronte delle dimensioni di una cellula: primi passi verso lo spettacolare universo che la nanotecnologia è in grado di svelare. Sono Alessandro Scali (Torino, 1972) e Robin Goode (Capetown 1978), hanno fondato il collettivo artistico Paperkut e l’agenzia di comunicazione Kut communications. Li incontriamo nel loro studio torinese.
Come è nata l’idea di intraprendere la sfida della nanoarte?
La nostra curiosità professionale ci induce a fare ricerca, a essere avidi di novità in tutti i campi. Nel 2004, navigando in rete, ci siamo imbattuti nelle prime immagini di nanotecnologia. Siamo rimasti impressionati dalle potenzialità espressive di questa nuova frontiera della scienza, che poteva consentirci un provocatorio gioco concettuale sul superamento delle ‘arti visive’. Abbiamo elaborato un progetto di NanoArte, inviato ovunque, e complice la ‘orizzontalità gerarchica’ propria di Internet, i più grandi luminari del settore ci hanno risposto indirizzandoci verso i centri di eccellenza italiani per le nanotecnologie: Trieste e Torino, Lecce e Catanzaro.
Come è iniziata la collaborazione con il Politecnico di Torino?
Dopo aver conosciuto il professor Enzo di Fabrizio all’Università di Trieste e aver ricevuto da lui un feedback decisamente positivo circa la fattibilità e la qualità del progetto, abbiamo deciso di tentare nella nostra città, al Politecnico. Abbiamo preso contatto col professor Fabrizio Pirri del Dipartimento di Fisica, che ha formato un team, oggi composto da sei persone, e dato il via ai lavori. Dobbiamo tutto al Politecnico: noi ideiamo i temi di ricerca, quindi diamo gli ‘inventori’, ma loro li realizzano, sono gli ‘artisti applicati’…
Quali nanotecnologie utilizzate?
Diverse. Per esempio, per Oltre le colonne d’Ercole abbiamo usato la fotolitografia, per Dimensione attuale la litografia ossidativa, per Scemo chi legge la laser ablation.
Perché proprio la nanotecnologia come ‘strumento’ di produzione artistica?
Occorre precisare: noi non abbiamo deciso di opere d’arte ‘invisibili’ perché ci siamo imbattuti nella nanotecnologia. È vero il contrario: la nanotecnologia ha tutte le caratteristiche per consentirci di esprimere in modo efficace e innovativo i concetti che noi volevamo comunicare facendo arte. Nuovi punti di vista, nuovi valori, nuove letture del mondo come, per esempio, la denuncia dell’invisibilità ‘politica’ di un intero continente nel caso di Dimensione attuale, un’Africa dalle dimensioni di 300x280 nanometri. Da un lato quindi usiamo le nanotecnologie perché ci consentono una comunicazione artistica aggressiva, sintetica e impattante. Dall’altro, assegniamo un valore divulgativo al nostro lavoro altrettanto importante: le nanotecnologie sono frutto del progresso scientifico e moltissima gente è all’oscuro dei passi da gigante che la scienza ha fatto nell’ultimo secolo (basti pensare all’alone di mistero che ancora oggi avvolge la meccanica quantistica). Eppure, i mondi che le nuove tecnologie sono in grado di svelare sono terribilmente affascinanti anche per i profani. Con le nostre opere non solo ‘minori’, ma ‘minime’, addirittura ‘nanesche’ speriamo di poter creare un contatto, anche solo empatico, fra il grande pubblico e nuovi mondi scientifici ed estetici, mentre le arti ‘maggiori’ di tutto ciò se ne fottono.
Dunque l’arte come mezzo ‘popolare’ di diffusione delle conoscenze scientifiche?
Anche. Avvertiamo la necessità di fare uscire dai laboratori le conoscenze scientifiche e tecnologiche pure di alto profilo: bisogna che tutti se ne approprino, che tutti si ‘stupiscano’. Oggi noi non usiamo pennelli ma nanotecnologie, sfruttando quello che la scienza offre. Ma questo è solo l’inizio. Non vogliamo sentirci legati per forza alla nanotecnologia. Esistono tantissime altre tecnologie che vorremmo applicare artisticamente. Il nostro obiettivo è aprire un laboratorio al Politecnico dove raccogliere gli input che arrivano dai ricercatori e rielaborarli artisticamente. Una moderna versione delle antiche botteghe d’arte. A tal proposito c’è un aspetto che ci ha estremamente colpiti: esiste un lasso di tempo in cui i ricercatori testano i macchinari appena creati e lo fanno giocando (per esempio, nel caso delle nanotecnologie, creando minuscoli oggetti ‘dissacranti’). A noi piacerebbe inserirci in quella fessura fra gioco e ricerca e sfruttarla per comunicare qualcosa. Il laboratorio renderebbe stabile questo progetto e garantirebbe alle persone che hanno lavorato con noi finora di continuare a specializzarsi in questo settore ibrido, ‘tecnologico-artistico’: una figura professionale insolita, futuribile.
Alla prima esposizione di NanoArte quale reazione vi aspettavate da parte del pubblico e quale è poi effettivamente stata?
Tutto è andato come previsto: si è creata una sorta di ‘imbarazzo estetico’ per cui le persone non sapevano come rapportarsi all’opera. D’altra parte si tratta di chip di silicio appoggiati su un piedistallo e guardandoli non si vede nulla, salvo i marker che i tecnici mettono per delimitare l’ambito, immenso, in cui l’opera si trova. Lo sguardo dello spettatore corre alle didascalie e trova quiete solo quando passa agli ingrandimenti realizzati coi microscopi a scansione e certificati dal Politecnico appesi al muro. Solo fornendo le ‘prove’ si dimostra che l’opera esiste, se no potrebbe anche non esserci: un ‘paradosso estetico’ per cui lo spettatore dovrebbe ‘fidarsi’ dell’artista. Forse, per educare a questo tipo di visione, e di ‘esperienza estetica’, bisognerebbe, prima di arrivare a esporre chip e basta (che poi sarebbe tipica provocazione artistica), tentare la strada dell’interazione, esponendo anche dei microscopi ottici. Il problema è che non tutte le opere sono tanto ‘grandi’ da poter essere viste al microscopio ottico e le macchine che occorrerebbero, i microscopi elettronici a scansione FESEM, sono utilizzabili solo in laboratorio e da tecnici esperti.
Le ‘nanopere’ prodotte finora sono molto diverse le une dalle altre: Dimensione attuale è ‘impegnata’, Oltre le colonne d’Ercole è ‘fantascientifica’, Scemo chi legge è una gag. Esiste un filo conduttore?
Il filo conduttore è il gusto del paradosso, della contraddizione, dell’ironia e della sfida intellettuale. Per esempio, Scemo chi legge è emblematica: usare tecnologie per produrre ‘sciocchezze’ infatti altro non è che una metafora dell’inutilità, quando non delle pericolosità, di certa tecnologia se adottata acriticamente o speculativamente. Ma, si badi, quest’opera può essere letta come un divertissement. Per noi è molto importante che il primo livello di lettura sia immediato, poi è ovvio che a seconda del background di chi osserva le soglie interpretative si possono moltiplicare all’infinito: è la ‘semantica a gradini’…
Non credete che le potenzialità espressive della nanotecnologia possano risolversi nella dicotomia visibile-invisibile?
Sì. Infatti, poiché non vogliamo che la nostra diventi una maniera, abbiamo in mente molti nuovi progetti che coinvolgono altre tecnologie, in linea con l’idea ‘didascalica’ cui facevamo cenno prima.
Siete affascinati dalla fantascienza?
Siamo affascinati dai confini, indistinti, delle scienza. Più dai territori e dagli spazi estremi scientifici che da quelli della sola fantasia indisciplinata. Ma d’altra parte a volte le frontiere sono labili: succedono cose ‘laggiù’ che hanno leggi talmente diverse dalle nostre da apparire contemporaneramente come reali e fantastiche.

Nanoarte: oltre le arti visive

La NanoArte ha oltrepassato le arti visive? La domanda si pone necessariamente di fronte alle dimensioni di un’opera come Dimensione attuale, un’Africa delle dimensioni di 300 x 280 nanometri, litografata su un wafer di silicio. Per dare dei termini di paragone, o dei riferimenti, basta pensare che le cellule più piccole del nostro corpo – quelle batteriche - hanno le dimensioni di 1 micron, ossia un milionesimo di metro, mentre il nanometro è un miliardesimo di metro. Ebbene, il lato più corto di Dimensione attuale misura 280 nanometri. Se si pensa poi che l’Africa si trova su un wafer di silicio di circa due centimentri per lato, si comprende come riuscire a trovare la litografia sulla sua superficie, anche se dotati degli strumenti necessari, sia un’impresa nient’affatto semplice, se non disperata.

Il continente africano litografato è dunque inaccessibile all’occhio umano. A un’esposizione, lo spettatore vede solamente la placchetta di silicio e null’altro. Eppure l’Africa c’è, semplicemente la sua esistenza non è da noi percepibile. Potremmo allora decidere di mettere il wafer sotto la lente di un microscopio ottico, ma anche in questo caso non vedremmo nulla: Dimensione attuale è talmente minuscola che nemmeno un microscopio ottico può rivelarne l’esistenza. È vero che qualche volta i ricercatori mettono dei markers – in altre parole, dei segni – per delimitare i confini entro i quali l’opera si trova, ma anche facendo ciò l’area rimane immensa, e chi fosse dotato di un FESEM – Field Emission Scanning Electron Microscope, un particolare microscopio elettreonico a scansione che è in grado di osservare oggetti di dimensioni nanometriche – si troverebbe in ogni caso a cercare un ago in un pagliaio.

Se paragonata ad una qualsiasi altra opera d’arte fino ad oggi realizzata ed esposta al pubblico, Dimensione attuale pone inevitabilmente una serie di interrogativi piuttosto inquietanti. In primo luogo, l’opera esiste davvero? Dobbiamo fidarci dell’artista? O è tutta una buffonata, una presa in giro, un divertissement, una bravata di due simpaticoni, l’ennesima, stucchevole provocazione – e nulla più - dell’arte contemporanea?
Se si parte dal presupposto che ciò che è nanometrico non si vede ad occhio nudo e tantomeno col microscopio ottico, io e Robin potremmo in teoria sostenere che su quel pezzettino di silicio c’è qualsiasi cosa: si provi a dimostrare il contrario. Certo, sarebbe una bella mascalzonata, ma le opere sono realizzate e certificate dal Politecnico di Torino, e chiunque – prendendo le necessarie precauzioni – può assistere di persona alla realizzazione dell’artefatto stesso all’interno delle camere pulite dei laboratori del Chilab o del Latemar.

Dunque gli scettici possono mettersi il cuore in pace: l’Africa si trova effettivamente sulla superficie di silicio, ma l’interrogativo rimane ancora, in questo senso: ok, l’opera c’è, ma se io non la posso vedere, esiste? Un ragionamento del genere non ha senso: equivarrebbe a negare, per esempio, l’esistenza delle cellule solo perché invisibili all’occhio umano. Bisogna chiarire infatti che se è vero che le opere sono invisibili all’occhio, non lo sono in senso assoluto: con gli strumenti adatti, e con una buona dosa di pazienza e di fortuna, si può riuscire a trovare e a vedere l’Africa.

Non c’è dubbio, in ogni caso, che Dimensione attuale - presa di per sé, e non affiancata da immagini realizzate con microscopi elettronici che ne svelano l’esistenza - provochi una sorta di imbarazzo estetico. Ma come, esporre un’opera che c’è ma non si vede? Eppure proprio lì sta il bello. Basterebbe tornare al senso dell’opera stessa - l’invisibilità dell’Africa: un dato di fatto, tanto quanto la sua effettiva, concreta esistenza – per comprendere la pregnanza della contraddizione e del paradosso. L’invisibilità, in questo caso, non è fine a se stessa, ma è funzionale al significato dell’opera. Dimensione attuale è invisibile perché così deve essere, e non per semplice sfoggio di virtuosismo.

Come esporre, allora, un’opera che non si vede? Ce lo chiediamo ogni volta che dobbiamo allestire una mostra. Per Dimensione attuale - nel caso della mostra NanoArte di Bergamo - abbiamo utilizzato un escamotage: abbiamo realizzato un campione più grande dell’opera, delle dimensione di qualche micron, e abbiamo messo questo chip sotto la lente di un microscopio ottico, mentre l’opera originale – quella nanometrica - era esposta al fianco della riproduzione ingrandita. Ciò che gli spettatori potevano osservare non era dunque l’opera originale, ma un campione con le stesse caratteristiche ma di dimensioni maggiori, e dunque visibile.

Altro significativo esempio di superamento dei limiti del visibile è rappresentato da Oltre le colonne d’Ercole, non a caso prima opera di NanoArte realizzata da me e Robin. Quella serie di impronte micrometriche impresse su un wafer di silicio volevano proprio rappresentare i primi passi dell’arte in un universo misterioso, che sebbene sia parte del nostro è tuttavia regolato da leggi spesso completamente diverse, che ci paiono paradossali, contraddittorie, assurde. È l’universo dell’infinitamente piccolo o dell’invisibile, dei quanti di materia e delle leggi che ne descrivono i comportamenti, la meccanica quantistica.
Anche dal punto di vista delle dimensioni possiamo parlare di primi passi: in confronto alle dimensioni nanometriche di Dimensione attuale, si potrebbe dire che Oltre le colonne d’ercole è un’opera gigantesca: le impronte sono grandi qualche micron, e nel complesso la passeggiata è lunga circa 2 centimetri. In ogni caso, a occhio nudo si fa fatica a vedere qualcosa: in particolari condizioni di luce si riesce a intravedere una serie di puntini che formano una linea serpeggiante, ma nulla più.

Solo le quattro immagini in bianco e nero del FESEM - esposte, nel caso del premio San Fedele di Milano, ad integrazione dell’opera - mettono in luce i dettagli: su una superficie che appare lunare si distinguono chiaramente i segni degli scarponi lasciati da qualcuno, ma non solo, si riconosce la pressione esercitata dal peso del corpo sul terreno: le impronte non sono semplicemente ‘disegnate’ sono davvero ‘impresse’, hanno profondità.
Sono anche, infine, i primi passi dell’arte oltre il limite del visibile: opere che ci sono, esistono, ma si sottraggono allo sguardo, si negano alla vista: lì, l’occhio bulimico contemporaneo non può arrivare. Costantemente bombardato da una sequenza infinita di sollecitazioni, di fronte a opere invisibili l’occhio deve arrendersi alla sua momentanea inutilità. In questo frangente, l’occhio fa epochè, sospende il giudizio.

Nonostante l’occhio venga escluso da uno dei suoi territori privilegiati, non credo che la NanoArte sia la negazione della visione. Al contrario, forse l’arte invisibile è l’invito a non fermarci solo a guardare, ma ad osservare. A non farci impressionare/suggestionare, ma a analizzare più nel dettaglio, più in profondità. L’arte invisibile è il tentativo di andare oltre la semplice, banale visione: è, forse, l’idea di uno sguardo attivo contro una visione passiva, acritica, distratta, superficiale, preconfezionata. La Nanoarte vuole sfidare, contrastare, mettere in crisi la dittatura dell’occhio e dell’immagine per proporre un diverso tipo di osservazione che non coinvolga l’occhio in prima istanza, o che non si riduca esclusivamente ad esso.
L’occhio, in fondo, non vede nulla. È il cervello che interpreta gli stimoli provenienti dall’occhio trasformandoli in immagini. Paradossalmente Dimensione attuale, o la NanoArte, o l’arte invisibile, non sono la negazione ma l’elogio, l’esaltazione della visione, ma di una visione che liberatasi dal vincolo dell’occhio, può riscoprire il ruolo di tutto ciò che, oltre e al di là dell’occhio, permette all’essere umano di vedere, e dunque di comprendere.

Nanoarte: Oltre le Colonne d'Ercole

Quali sono, oggi, le caratteristiche del viaggiare? Che senso ha il viaggio nella società e nella cultura contemporanee? Quali sono le differenze con i viaggi di altre epoche? Se ci si attiene al significato primario o letterale del termine - e dunque si intende il viaggio come spostamento fisico tra due punti diversi – non si può fare a meno di notare come oggi, rispetto a un passato neanche troppo remoto, viaggiare sia molto più semplice, rapido, comodo. Ma non solo: oggi si può viaggiare praticamente ovunque, il mondo si è fatto più piccolo, le distanze si sono abbreviate, si sono accorciati i tempi, le mete disponibili sono aumentate in modo esponenziale.

Queste caratteristiche hanno fatto perdere al viaggio contemporaneo un aspetto determinante dei viaggi del passato: l’ignoto, la scoperta, la meraviglia, la sorpresa. Quanti viaggiatori del passato, partendo, sapevano in anticipo dove sarebbero arrivati? Quanti di loro sapevano cosa avrebbero trovato nel corso del viaggio e una volta arrivati alla meta? Certamente pochi. Senza dubbio non Dante, non Ulisse, non Marco Polo nè Cristoforo Colombo, e con loro tanti, tantissimi altri: forse l’aspetto più suggestivo dei loro viaggi stava proprio nel non sapere a cosa stavano andando incontro, o ancora nello scoprire nuovi, incredibili mondi di cui nessun essere umano era prima a conoscenza.

Il viaggiatore contemporaneo, nella maggioranza dei casi, sa già prima di partire dove arriverà. Anzi, più dati e informazioni ha sulla meta meglio è. Del resto, cosa c’è di ancora sconosciuto sulla faccia della terra che non si sia trasformato in una guida turistica, in un documentario, un video amatoriale o nelle foto di un professionista? Spesso viaggiare significa proprio andare a vedere ‘dal vivo’ quei paesi e quei luoghi che tanto ci hanno affascinato in tv, su una rivista o un libro.

VIAGGIO ALLA SCOPERTA DI UN NUOVO MONDO
Come far recuperare al viaggiatore contemporaneo la dimensione dell’ignoto, della scoperta, della sorpresa, della meraviglia? È ancora possibile, oggi, partire senza sapere dove si arriverà? È possibile andare oltre le Colonne d’Ercole del nostro mondo per avventurarci in nuovi territori? Forse sì, se è vero che, dentro il nostro, esiste un universo sconosciuto alla maggioranza delle persone non solo perché difficilmente visibile a occhio nudo, ma anche perché al momento circoscritto alle teorie scientifiche e alle loro applicazioni nei laboratori dei centri di ricerca.

Stiamo parlando dell’universo dell’infinitamente piccolo, talmente piccolo che il nostro comune millimentro è troppo grande per poter misurare qualcosa con precisione (è come se si impiegasse un metro per misurare la punta di uno spillo) e si utilizzano dunque unità di misura come i micrometri se non, ancora più piccoli, i nanometri.
Per chi non è pratico di multipli e sottomultipli delle unità di misura, è bene sapere che il prefisso micro sta per 1 milionesimo mentre il prefisso nano sta per 1 miliardesimo. Riferendoci dunque alla microtecnologia, ci si riferisce a scale di grandezza di un milionesimo di metro (o, ancora, a 1/1000 di millimetro), mentre nel caso della nanotecnologia ci si riferisce a scale di grandezze di un miliardesimo di metro (o 1/1000.000 di millimetro: un nanometro corrisponde alla lunghezza di una piccola molecola).
Ebbene, l’essere umano ha iniziato da poco ad esplorare questo mondo sconosciuto, e le soprese sono state incredibili. Non solo si stanno scoprendo le leggi che lo regolano – e che, sorprendentemente, sono diverse da quelle che regolano il nostro mondo – ma stanno nascendo, grazie alla nanotecnologia, oggetti micro e nanometrici che superano qualsiasi immaginazione.

L’UNIVERSO DELLA NANOTECNOLOGIA
Le nanotecnologie costituiscono un nuovo approccio che si basa sulla comprensione e la conoscenza approfondita delle proprietà della materia su scala nanometrica. Su questa scala la materia presenta svariate proprietà, a volte molto sorprendenti, e le frontiere tra discipline scientifiche e tecniche si attenuano, il che spiega la dimensione interdisciplinare fortemente associata alle nanotecnologie. Le nanotecnologie sono spesso descritte come potenzialmente ‘rivoluzionarie’: esse apportano possibili soluzioni ad una serie di problemi attuali grazie a materiali, componenti e sistemi più piccoli, più leggeri, più rapidi e più efficaci. Le nanotecnologie dovrebbero inoltre apportare un contributo fondamentale alla soluzione di problemi mondiali ed ambientali perché consentono di realizzare prodotti e processi per usi più specifici, risparmiare risorse e ridurre il volume dei rifiuti e delle emissioni.

TRA ARTE E NANOTECNOLOGIA
Le prime espressioni artistiche
Solo recentemente l’arte ha iniziato ad interagire con la nanotecnologia. Da questo punto di vista, il solo artista che si sia cimentato con strutture micro e nanometriche è Cris Orfescu. Le opere di Orfescu sono fondamentalmente delle ‘fotografie’ – ottenute tramite microscopio elettronico – di micro e nanostrutture di diversi materiali, o ancora di micro e nanosculture ‘casuali’ ottenute tramite attacchi/processi chimici. Le immagini delle strutture ottenute con il microscopio a scansione elettronica vengono poi modificate e ‘colorate’ al computer e stampate su tela o carta.

L’approccio Scali & Goode
Il nostro approccio è differente, è diverso, poiché intende utilizzare le potenzialità offerte dalle micro/nanotecnologie come mezzo, strumento o tramite per esprimere, dal punto di vista artistico, nuovi punti di vista, nuovi valori, nuove interpretazioni del mondo. Partiamo cioè dalla necessità di veicolare un concetto o un’idea, e laddove riteniamo che le nanotecnologie possano essere il mezzo più efficace per esprimerli, le utilizziamo per produrre opere d’arte infinitamente piccole, dell’ordine di grandezza di micrometri o nanometri.

OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE
Microlitografia su silicio
Se davvero esiste un nuovo territorio da scoprire, perché non oltrepassare le Colonne d’Ercole del nostro mondo per andare alla ricerca di una nuova dimensione, un nuovo modo di concepire lo spazio e il tempo? Perché non far fare all’arte i primi passi sulla sua superficie? Perché non proporre allo spettatore un viaggio verso qualcosa di sostanzialmente sconosciuto e invisibile, ma che è realtà?
È per questo motivo che abbiamo deciso di presentare un’opera dal titolo Oltre le colonne d'Ercole: un’opera che è costituita da un campione di materiale metallico – il silicio – sulla superficie del quale sono state litografate una serie di impronte di dimensioni micrometriche, al fine di rappresentare la prima, vera e propria passeggiata in questo nuovo mondo. È importante sottolineare come le impronte non sono semplicemente ‘disegnate’, ma incise. Ciò significa che - come si evince dalle fotografie ingrandite del campione di silicio – è stato possibile riprodurre la pressione del peso della scarpa sulla superficie metallica.
Altro elemento degno di nota è il fatto che Oltre le colonne d'Ercole si può considerare il primo esempio al mondo di micro/nano litografia con finalità artistiche su un materiale metallico. È stato possibile ottenere questo riusultato grazie alla collaborazione e al contributo essenziale del Dipartimento di Fisica del Politecnico di Torino, nello specifico grazie al prof. Fabrizio Pirri e ai dottorandi Giancarlo Canavese, Alessandro Chiolerio, Gabriele Maccioni Giacomo Piacenza, Samy Strola. Nei paragrafi successivi vengono fornite tutte le informazioni relative al processo di realizzazione dell’opera e degli strumenti utilizzati,
Per quanto riguarda le dimensioni dell’opera, con un calcolo spannometrico la camminata (escludendo i passi fatti nella "sosta") risulta circa 28mm; ci sono in tutto 54 impronte di cui 11 grandi (prima della sosta) 23 medie (che compongono la sosta) e 20 piccole (dopo la sosta verso l'orizzonte).

Dimensioni delle impronte

Impronta grande positiva :
lunghezza: 1019um
larghezza: 398um
tassello posteriore: 58x64um
tassello anteriore: 35x83um

Impronta grande negativa:
lunghezza: 1121um
larghezza: 489um
tassello posteriore: 58x64um
tassello anteriore: 42X85um

Impronta media positiva:
lunghezza: 611um
larghezza: 230um
tassello posteriore: 34x46um
tassello anteriore: 23X54um

Impronta piccola positiva:
lunghezza: 201um
larghezza: 84um

Poiché una delle caratteristiche della ‘passeggiata’ litografata su silicio è quella di essere difficilmente visibile ad occhio nudo, il secondo elemento dell’opera è costituito da 4 gigantografie (fotografie a grandi dimensioni) della passeggiata micrometrica, che mostrano chiaramente ciò che l’occhio fatica a vedere sul campione di silicio. Le immagini sono state realizzate grazie al microscopio elettronico a scansione. Anche in questo caso, nei paragrafi successivi viene descritto il modo in cui sono state ottenute le immagini all’interno dei laboratori del Politecnico di Torino.

IL PROCESSO DI REALIZZAZIONE DELLE 4 IMMAGINI
Il microscopio elettronico a scansione (SEM)

Le ‘fotografie’ delle impronte litografate su silicio sono state ottenute mediante l’utilizzo del SEM, o microscopio elettronico a scansione. La differenza fondamentale tra il tradizionale microscopio ottico e quello a scansione consiste nel fatto che quest’ultimo utilizza un fascio di elettroni, anziché di luce visibile.
Il SEM è dunque in grado di raggiungere una risoluzione vari ordini di grandezza superiore a quella che si può ottenere con il normale microscopio ottico (che non può andare molto sotto l'ordine dei micrometri). Grazie al SEM si osservano anche oggetti spessi, che possono venire orientati e ingranditi durante l'osservazione. La superficie del campione (nel nostro caso la porzione di silicio) viene infatti "spazzolata" da un fascio di elettroni e l'immagine viene costruita indirettamente a partire dagli elettroni riflessi e diffusi dalla superficie dell'oggetto. Appositi dispositivi consentono sia di orientare il fascio di elettroni che scansiona il campione, sia il campione rispetto al fascio. L’oggetto deve però essere inserito in una camera a vuoto, per evitare il rumore causato dall’interazione degli elettroni con gli atomi che compongono i gas presenti nell’aria, nonché con la polvere e altre impurità. Nella camera possono essere posizionati anche diversi campioni di dimensioni relativamente grandi (dell'ordine dei centimetri).

VERSO L’ARTE INVISIBILE
L’opera Oltre le colonne d'Ercole è solo il primo passo di un progetto artistico e scientifico più ampio che ha quale obiettivo – grazie alla collaborazione con il Politecnico di Torino – la realizzazione di opere d’arte invisibili a occhio nudo. Grazie alle tecnologie oggi disponibili saremo presto in grado di di ridurre ulteriormente le dimensioni delle opere, scendendo dal livello micrometrico a quello nanometrico, arrivando alla produzione di oggetti artistici grandi quanto molecole o cellule. L’intenzione è quella di aprire un nuovo territorio estetico, dove l’opera d’arte c’è, esiste, ma non si vede ad occhio nudo.
Altro obietttivo è la realizzazione di opere non solo bi- ma tridimensionali: in altre parole realizzare qualcosa di paragonabile non solo a litografie o a quadri, ma a sculture in dimensioni nanometriche.

Nanoarte: infinitamente inferiori a Orfescu

Quella che vedete qui a fianco è un’opera di Cris Orfescu, dal titolo Stretching the limits 2. Le sue dimensioni sono 102 x 152 centimetri, la tecnica non viene specificata, al contrario del prezzo: 16900 euro. Niente male. Per sapere qualcosa di più su Orfescu basta digitare nome e cognome su Google per scoprire in breve tempo che il buon Cris – rumeno di nascita, americano di adozione – è il fondatore della NanoArt, il capostipite, colui che per primo, in campo artistico, si è cimentato con strutture nanometriche.

Ora, sebbene sia le opere di Orfescu sia le nostre vengano etichettate come NanoArte, non è privo di interesse capire quali sono le differenze tra i due approcci, poiché non si si tratta di semplici dettagli.

La diversità sostanziale, verrebbe da dire, è macroscopica e salta subito all’occhio: le opere di Cris Orfescu hanno dimensioni normali, o, in altre parole, sono visibili. È il soggetto delle opere ad essere nanometrico: Cris, in sostanza, elabora immagini ottenute da microscopi elettronici a scansione (lavorando, ad esempio, sulle cromie), poi le stampa in svariate dimensioni e quindi le espone.

Le nostre opere, al contrario, non sono semplicemente immagini, riproduzioni, scansioni o elaborazioni dell’affascinante e misterioso mondo dell’infinitamente piccolo. Sono le opere stesse ad avere dimensioni nanometriche o micrometriche – l’Africa di Dimensione attuale (Alessandro Scali e Robin Goode, 2007) misura 300 x 280 nanometri - e di conseguenza risultano invisibili all’occhio umano.

Trovo opportuno fermarmi qui ed evitare di fare paragoni sui soggetti, sui temi o sui contenuti delle rispettive opere. Ciascuno può giudicare liberamente: sia le nostre che quelle di Orfescu sono da qualche parte online. Ciò che è importante sottolineare è che il nostro approccio – che forse sarebbe più opportuno definire arte invisibile invece che nanoarte – sottrae, nasconde all’occhio dello spettatore l’elemento fondante dell’arte visiva, su cui si incentra anche la fantomatica NanoArte di Orfescu.

Nanoart: infinitely inferior to Orfescu

What you see beside this is a work by Cris Orfescu, entitled “Stretching the limits 2”. Measuring 102 x 152 centimetres, the technique is not specified but the price is: 16900 euros. Not bad. To discover more about Orfescu, you only need to type his name into Google to discover that Cris – Romanian by birth, American by adoption – is the founder of NanoArt, the forefather, the person who first tackled nanometric structures in an artistic sense.

Now, although both Orfescu’s work and our own are labelled as NanoArt, it might be worthwhile understanding the differences between the two approaches, because they do not consist of mere details.

The main difference, one might say, is macroscopic and immediately apparent: Cris Orfescu’s artworks come in normal sizes, or in other words, they are visible. It is the subject of the works that is nanometric: in short, Cris elaborates images taken from scanning electron microscopes (working on colours, for example), then prints them in various sizes and exhibits them.

On the contrary, our works are not just images, reproductions, scans or elaborations of the fascinating and mysterious world of the infinitely minute. In our case, the works themselves are nanometric or micrometric – in Actual Size (Alessandro Scali and Robin Goode, 2007) the African continent measures 300 x 280 nanometres – and as a result they are invisible to the human eye.

I think it is best to stop here and avoid any comparisons concerning the subject-matters, themes or contents of our respective works. Everyone is free to judge for themselves: both our works and those of Orfescu are partly available online. What is important to underline here, however, is the fact that our approach – which perhaps it would be more appropriate to call invisible rather than Nanoart – detracts and hides from the viewer’s eye the founding element of visual art, which instead the forms the focus of Orfescu’s fantastic NanoArt.

Nanoart: beyond visual arts?

Has NanoArt gone beyond the visual arts? The question must necessarily be asked in view of the dimensions of a work like Actual Size, an Africa measuring 300 x 280 nanometres, lithographed on a silicon wafer. To give some terms for comparison or reference, you only need think that the smallest cells in our bodies – bacterial cells – measure 1 micron, namely one millionth of a metre, while a nanometre is a billionth of a metre. Therefore, the shortest side of Actual Size measures 280 nanometres. If you think that Africa is on a silicon wafer measuring approximately two centimetres on each side, it is clear that finding the lithography on its surface, even using the necessary tools, is not exactly straightforward, but desperately complex.

The lithograph of the African continent is therefore invisible to the naked eye. On display, the viewer only sees the silicon plate and nothing else. Yet Africa is there, only we are unable to perceive its existence. We might then decide to place the wafer under an optical microscope, but again we would not see anything: Actual Size is so minute that it is not even visible using an optical microscope. Indeed, sometimes researchers insert markers – or in other words, signs – to mark the boundaries within which the work is placed, but even doing this the area is still vast, and anyone with a FESEM – Field Emission Scanning Electron Microscope capable of observing nanometric sized objects – would still find themselves looking for a needle in a haystack.

Compared to any other artwork made and exhibited to date, Actual Size inevitably raises a whole series of rather worrying questions. Firstly, does the work actually exist? Must we trust the artist? Or is it all a prank, a joke, a divertissement, a brag by two amusing guys, the nth sickening provocation – and nothing more – by contemporary art?
Starting from the premise that nanometric objects cannot be seen with the naked eye, and not even with an optical microscope, Robin and I could theoretically claim that anything whatsoever could be on the tiny silicon fragment: it would be difficult to prove otherwise. Certainly, it would be a classic case of taking the mickey, but the works are made and certified by the Politecnico di Torino, and anyone – provided the necessary precautions are taken – can come and watch the artefact being made in the white rooms of the Chilab or Latemar laboratories.

So all the sceptics can relax: Africa really is on the surface of the silicon wafer, but the question still remains, to the effect that ok, the work is there, but if I can’t see it, does it exist? Thinking along these lines makes no sense: it would be equivalent, for example, to denying the existence of cells because they are invisible to the human eye. Indeed, it is important to clarify whether it’s true that the works are invisible to the naked eye, not in absolute terms: using the appropriate equipment, and with a large dose of patience and good luck, you can find and see Africa.

There’s no doubt, however, that Actual Size – taken for itself, and not flanked by images created using electron microscopes that reveal its existence – creates a sort of aesthetic embarrassment. What’s this, exhibiting a work that exists but cannot be seen? Yet, this is precisely its beauty. Just think again about the meaning of the work – the invisibility of Africa: it’s a fact that is as real as its actual, physical existence – to understand the pregnancy of the contradiction and the paradox. In this case, invisibility is not an end in itself, but it is functional to the meaning of the work. Actual Size is invisible because this is how it must be, not because it is a simple display of virtuosity.

How else, then, could you exhibit an invisible artwork? We wonder about this every time we set up an exhibition. For Actual Size – in the case of the NanoArt exhibition at Bergamo – we used a subterfuge: we created a larger copy of the work, measuring a few microns, and we placed this chip under the lens of a optical microscope, while the original work – in nanometric dimensions – was displayed alongside the enlarged reproduction. What visitors saw was therefore not the original artwork, but a copy with the same characteristics, but larger dimensions, making it visible.

Another important example of pushing through the limits of the visible is represented by Beyond the pillars of Hercules, which not surprisingly was the first Nano artwork created by Robin and myself. This series of micrometric imprints printed on a silicon wafer were intended to represent the first steps of art into a mysterious universe, which although it forms part of our own universe is nonetheless often governed by completely different laws that seem paradoxical, contradictory and absurd. It is the universe of the infinitely small or invisible, of quanta of matter and laws that describe their behaviour, quantum mechanics.
We can also talk about the first steps in terms of dimensions: compared to the nanometric dimensions of Actual Size, you could say that Beyond the pillars of Hercules is a gigantic work: the imprints are a few microns long, and the whole sequence is 2 centimetres long in all. However, you struggle to see anything with the naked eye: in particular conditions of lighting, you can glimpse a series of dots that form a winding line, but nothing more.

Only the four black and white FESEM images – exhibited to integrate the work at the San Fedele Award in Milan – reveal the details: on what appears to be a lunar surface, you can clearly make out the marks left by someone’s boots, and moreover, you can see the pressure exerted by their bodyweight on the ground: the footprints are not just “marked” but are really “imprinted”, acquiring depth.
Lastly, they are also the first steps taken by art beyond the boundaries of the visible: works that are present, they exist, but they are hidden from sight, they cannot be seen: our contemporary bulimic gaze cannot reach them. Constantly bombarded by an infinite sequence of stimuli, faced with invisible works the eye has to give way to momentary uselessness. At this juncture, the eye undergoes epochè, or suspends judgement.

Although the eye is excluded from one of its preferred territories, I don’t believe that NanoArt is a denial of vision. On the contrary, invisible art may perhaps be an invitation not to dwell only on looking, but instead to observe. To analyse in greater detail and depth, without just being open to impressions or suggestions. Invisible art is an attempt to go beyond simple, commonplace vision: perhaps it’s the idea of being active observers rather than passive, acritical, distracted, superficial and pre-packaged onlookers. NanoArt aims to challenge, contrast and question the dictatorship of the eye and image, and to propose a different kind of observation that does not involve the eye in the first place, or is not exclusively reduced to seeing.
After all, the eye itself does not see anything. It is our brain that interprets the stimuli sent by the eye and turns them into images. Paradoxically, Actual Size or NanoArt or invisible art are not a negation but rather a eulogy, an exaltation of vision, a vision that is free from the constraints of the eye and can rediscover the role of everything that, apart from the eye, allows humans to see and therefore to understand.

Nanoart: a sublime experience

The following pages include a few passages taken from the texts included in the Nanoart catalogue, edited by Stefano Raimondi and published by Skira. The catalogue was published to mark the exhibition on Nanoart, Seeing the invisible (Bergamo, 2 – 21 October 2007) which included seven Nano artworks by Alessandro Scali and Robin Goode, and one by Grit Ruhland.

“Nanoart pushes us a step forward: it cancels our direct vision of the image, eliminates the superiority acquired through sight. Paradoxical and provocative, as in the case of every revolutionary artistic movement. The paradox is that it offers a “non vision” of a visual art. (…) And herein lies the radical nature of the proposal: viewers are called on to contribute personally to the creation of the artwork. With the help of a title, which acts as a foothold and sets the context, viewers must finally use their inner eye and stoke up their imagination that has been stymied and penalised by excessive, invasive external images.”

Stefano Raimondi – Nanoart: outside this world, into the infinite (p. 17, Nanoart catalogue)


“If we take into consideration the objects on display in this exhibition and the idea of invisible art in general, it is clear that we cannot place them in that context of a liking of perception that constitutes the pleasure of pictorial texts. We are in that area of communications where the object of representation is both placed and removed at the same time – it is placed to be removed, and removed because of how it is placed – which characterises what is probably the main current of art in contemporary art since the time of Duchamp, if not earlier. We are in a perverse area, where perception is prompted but impeded, and the impossibility of direct vision constitutes grounds for seduction/sedition, provocation and rejection. In short, it is a play on the very pre-conditions of enjoying an object as a representation, and moreover an intentional representation according to the socially conditioned method of artistic representation. For this reason, the taste of these works is enjoyment and, as such, always potential, always complete/ incomplete, always interrogatory. At least while the response required by all enjoyment – not by every pleasure – lasts, the willingness to question oneself and to become involved, with attention and curiosity, and wonder – the origin of philosophy, science and even artistic “enjoyment”.

Ugo Volli – The effect of the invisible. Pleasure and history (p. 23, Nanoart catalogue)


“In our case, contrary to the blindness of habit, visitors to the Nanoart exhibition experience their own blindness compared to the exhibits themselves on display. A short circuit that in my opinion produces rare goods: it makes you think. Thinking for example about how precarious and how unfounded man’s dominion is over the surrounding world, which we are accustomed to believing that we occupy.”

Mauro Carbone – Two or three things that I (don’t) know about Nanoart (p. 25, Nanoart catalogue)


“It strikes me that, over and beyond the question of which medium to use, the artists’ intention is to give the visitor a real aesthetic experience with all its contradictions and complexities. (…) This is no trick perception, no optical or geometric illusion or trompe l’oeil. Instead, we are inside our awareness of a limit, that of visual perception, and its liberation, through a medium created by man. Nothing is more sublime, since this experience combines amazement, admiration, fear, bewilderment.”

Maddalena Mazzocut-Mis – A sublime experience (p. 31, Nanoart catalogue)


At this point, what can be said about a form of art that by definition cannot be perceived? There is a radical contradiction between NanoArt and aesthetics. We are dealing with an art form that a priori evades the senses and therefore seems to place itself outside aesthetics, in a zone of sensorial incommunicableness. Having been denied, aesthetics is undermined.

Piero Bianucci – Communicating science, communicating art (p. 34, Nanoart catalogue)

Tuesday, June 24, 2008