Tanta inaspettata visibilità è senza dubbio ascrivibile allo sviluppo della nanotecnologia, una disciplina nata tutto sommato di recente. Alcune date possono servire come riferimento: nel 1959 Fenyman, docente del California Institute of Technology, è il primo a suggerire un metodo per la manipolazione di atomi e molecole in modo diretto mediante macchinari di dimensioni molecolari. Il termine nanotecnologia compare invece nel 1974, all'interno dell'articolo On the basics concepts of Nanotechnology del giapponese Taniguchi, prima pubblicazione scientifica che offre una dimostrazione della fattibilità della nanotecnologia. Bisogna invece aspettare il 1981 per l'invenzione dello Scanning Tunnel Microscope, primo dispositivo che permette di osservare la materia atomo per atomo.
Dal 1981 a oggi la nanotecnologia ha fatto indubbiamente passi da gigante. I suoi effetti sono manifesti anche a persone poco esperte di sviluppo e innovazione tecnologica, e sono consolidati in molteplici settori della produzione industriale, primo fra tutti quello relativo all'elettronica. Questa spinta costante alla miniaturizzazione ha raggiunto oggi limiti un tempo inimmaginabili, fino a consentire di operare su scala nanoscopica, dove è possibile osservare e contare singole molecole e singoli atomi, e dove si mettono in luce le sorprendenti proprietà della fisica quantistica: la materia infatti, a livello nanometrico, presenta peculiarità insolite, non riscontrabili a livello macro.
L'entusiasmo che accompagna lo sviluppo di questo settore della scienza è determinato non solo dal fascino della scoperta di un nuovo mondo, quello dell'infinitamente piccolo, ma anche dal fatto che la nanotecnologia – dal punto di vista più strettamente pratico – promette la possibilità di ottenere un numero notevole di vantaggi a fronte dell'utilizzo di una quantità ridotta di risorse. È ormai sotto gli occhi di tutti che la nanotecnologia porta alla progettazione e commercializzazione di dispositivi, strumenti, apparati e congegni sempre più piccoli, economici, leggeri e veloci, in grado di compiere operazioni e funzioni sempre più complesse a fronte di un ridotto impiego di materie prime e un minor consumo di energia. Per rendersi conto del livello raggiunto basta fare l'esempio del telefono cellulare, uno strumento che è evoluto radicalmente in questi anni diventando senza ombra di dubbio più piccolo ma paradossalmente anche più intelligente e veloce oltre che economico.
Per comprendere ancora più a fondo il ruolo e la portata della nanotecnologia, basta riflettere sul fatto che la natura stessa si fonda sull'infinitamente piccolo. Scrive a questo proposito il prof. Fabrizio Pirri sul catalogo Nanoarte, vedere l'invisibile: 'La natura è infatti nanotecnologia per definizione e attraverso un processo che viene definito autoaggregazione, partendo dai singoli atomi costruisce strutture nanometriche complesse che poi interagiscono per dare origine ai fenomeni che percepiamo e alle strutture macroscopiche a noi familiari, vita inclusa, e creando alcuni sistemi complessi dalle proprietà incredibili: piante in grado di regolare la loro capacità di assorbire o riflettere la radiazione solare, strutture colorate come le ali delle farfalle e le piume di alcuni uccelli tropicali, il cui colore è dovuto al processo di riflessione della luce solare su particelle assolutamente trasparenti, insetti come le lucciole capaci di emettere luce con un bassissimo consumo energetico'. Ma non solo. L'elemento base della vita è la cellula e la cellula, come è noto, è straordinariamente piccola. Esistono infatti organismi composti da una sola cellula – un esempio è il lievito – così come organismi composti, come l'essere umano, da circa 10.000 cellule.
L'obiettivo della nanotecnologia è quello, se vogliamo, di copiare la natura nel suo processo di costruzione/edificazione della vita a partire dai mattoni infinitamente piccoli che la compongono: gli atomi, particelle. Per questo il nanometro e la nanotecnologia vengono spesso additati come veri e propri 'salvatori dell'umanità': perché studiando i meccanismi di funzionamento del mondo vivente, gli scienziati provano a risolvere i problemi del mondo non-vivente. Come scrive Ottilia Saxl, infatti, 'il modo in cui gli organismi marini costruiscono i loro gusci forti può aiutare nella progettazione di materiali automobilistici più leggeri e resistenti; il modo in cui si verifica la fotosintesi all'interno di una foglia può portare a scoprire nuove tecniche per generare efficacemente energia rinnovabile, e il modo in cui un'ortica mette in atto la sua puntura può suggerire migliori tecniche di vaccinazione. Tutte queste idee stanno conducendo a quelle che si chiamano 'soluzioni dirompenti, poiché superano ed eliminano completamente i vecchi modi di fare una cosa'. Con degli obiettivi di tale portata, è quasi scontato che il nanometro e la nanotecnologia diverranno man mano sempre più protagonisti e pervasivi, coprendo settori che vanno dalla meccanica all'elettronica dal tessile alla farmaceutica, dalla biologia all'ambiente e all'energetica.
Eppure, nonostante la sua pervasività, c'è un settore rilevante della conoscenza umana che sembra resistere alla nanotecnologia o comunque a ogni tentativo di miniaturizzazione, e che sembra essere stato quasi solo sfiorato dalla scoperta dell'infinitamente piccolo: sto parlando dell'arte, in particolare quello della cosiddetta 'arte alta'.
Contrariamente ai telefoni cellulari, ai computer e altri oggetti e strumenti più o meno di uso comune, infatti, le opere d'arte – sia quelle esposte nei musei di arte antica, sia quelle vendute alle fiere d'arte contemporanea - non sembrano essere state investite dalla corsa alla miniaturizzazione. Dall'antichità a oggi – fatte poche e debite eccezioni, come la miniatura o qualche eccentrico pittore che ha perduto la vista mettendosi in testa di dipingere tele estremamente piccole, e che in ogni caso non fanno che confermare la regola – la dimensione delle opere d'arte è rimasta più o meno costante, configurandosi in una medietà compresa tra gli estremi, per le grandi dimensioni, dell'arte monumentale degli antichi egizi, a quelli decisamente meno ingombranti della miniatura medievale. Sembra dunque che nell'arte le dimensioni, sotto un certo punto di vista, contino eccome, e che esista una tradizione estremamente lunga e ben consolidata di espressioni artistiche che lo può confermare.
Da che cosa dipende questa supposta resistenza? È possibile addurre delle ragioni di ordine teorico, estetico, o più semplicemente legate al buon senso? Soprattutto, è rilevante e pertinente parlare delle dimensioni di un'opera d'arte? Le opere rientrano in categorie di oggetti di una certa taglia? Se fino ad oggi abbiamo assistito a una serie di escursioni sporadiche e poco rilevanti dal punto di vista artistico ed estetico nel mondo della nanotecnolgia o per dirla in termini più astratti dell'infinitamente piccolo, significa forse che le opere d'arte devono avere certe caratteristiche e non altre? Sulla base di un ragionamento di questo tipo, è ipotizzabile stabilire cosa sia un'opera d'arte e cosa non lo sia prendendone letteralmente le misure?
Queste domande possono apparire ridicole o prive di alcuna portata epistemologica o pratica, eppure è attorno a interrogativi del genere che si svolge una delle teorie più interessanti e provocatorie dell'arte e dell’estetica contemporanee, la teoria normativa elaborata dal filosofo torinese Maurizio Ferraris e pubblicata in un volume dal titolo La fidanzata automatica alla fine del 2007. Cosa significa elaborare una teoria normativa dell'arte? Secondo il filosofo italiano significa affermare che per qualche motivo una qualche cosa – sia essa un piccione o un terremoto – non può essere in alcun modo un'opera d'arte, e che cosa, invece, 'possieda i requisiti formali per esserlo'. Quindi, seguendo le orme del Ferraris, capiremo non solo che 'non è vero che qualunque X (soggetto, oggetto, evento) può diventare un'opera d'arte, ma anche che non tutti gli oggetti fisici possono aspirare allo stato di opera'.
Per capire come la teoria normativa sia strettamente correlata alle dimensioni dell'arte e dunque all'universo dell'infinitamente piccolo dobbiamo necessariamente svilupparne alcuni punti. Partiamo dalla prima essenziale affermazione: l'arte è la classe delle opere. Secondo Ferraris, non esiste a priori una forma dello spirito, ossia l'arte, a cui corrispondono le opere. Esistono invece 'degli oggetti dotati di certe caratteristiche e non di altre che, in determinate circostanze, possono assumere lo status dell'opera d'arte (come sottotesi, non è vero che qualunque cosa può essere un'opera)'. La seconda e fondamentale affermazione si può formulare in questi termini: ‘le opere d'arte sono prima di ogni altra cosa oggetti fisici, e oggetti di una certa taglia, né troppo grandi né troppo piccoli, né troppo estesi nel tempo né troppo istantane’i. Non solo: le opere d'arte possono essere identificate sulla base di alcune proprietà essenziali: 'in primo luogo la sensibilità il cui principio è: la cosa e l'opera cadono necessariamente sotto i sensi. In secondo luogo, la manipolabilità. Il suo principio è: la cosa e l'opera sono essenzialmente a portata di mano maneggiabili e osservabili a occhio nudo, o al massimo muniti di occhiali.
Possiamo fermarci qui e lasciare i due punti seguenti a chi voglia approfondire la lettura del volume. Se rispondessimo ai quesiti posti precedentemente nei termini della teoria normativa del filosofo italiano, dovremmo ammettere che non è possibile considerare opere d'arte degli oggetti che non possono essere percepiti dai sensi, primo fra tutti la vista. L'occhio vuole sempre la sua parte, mi verrebbe di dire, e Ferraris non sembra avere tutti i torti se si guarda alla storia dell'arte, sia essa primitiva o contemporanea. I fruitori delle opere d'arte, dalla notte dei tempi fino ad oggi, non si sono trovati nell'imbarazzante e paradossale situazione di contemplare qualcosa di non osservabile, o di ascoltare l'inudibile. Per quanto alte, le statue egizie possono essere colte con un solo colpo d'occhio se ce ne si distanzia di qualche metro, così come anche il quadro più piccolo mai dipinto può essere osservato se si avvicina l'occhio alla minuscola tela e si stringono appena gli occhi.
Per fare qualche esempio ancora più significativo legato all’arte conteporanea, si prenda una delle opere realizzate dall'artista Cris Orfescu, rumeno di nascita e americano d'adozione. Cos'hanno di particolare tutte le sue opere? Consideriamo i soggetti o i contenuti delle sue tele: cosa raffigurano? É l'artista a definire con precisione il tema costante e trasversale della propria espressione artistica: 'Metto l'universo nanometrico sotto gli occhi degli spettatori visualizzando, mediante un microscopio elettronico a scansione, i nanopaesaggi e le nanosculture create da processi fisici e chimici. Dipingo e manipolo digitalmente le immagini monocromatiche ottenute dal microscopio e le stampo su tela o carta con particolari inchiostri formulati per resistere a lungo'. Orfescu, dunque, tramite il microscopio elettronico a scansione 'scatta' delle istantanee dell'universo a scala nanometrica – molti elementi, a queste dimensioni, mostrano strutture e forme particolarmente affascinanti che possono evocare, di volta in volta, paesaggi extraterresti, fondali marini o strutture geometriche particolarmente complesse e armoniose – che poi colora e stampa a grandi dimensioni su tela ed espone al pubblico. Sebbene dunque il soggetto dell'opera sia in qualche modo riconducibile alla nanotecnologia – così come alla nanotecnologia è ascrivibile l'ottenimento dell'immagine del nanomondo – il concreto risultato finale è una 'cosa' – un dipinto - che rientra nella teoria normativa di Ferraris: un oggetto - dal punto di vista delle sue peculiarità formali – del tutto ordinario, né troppo piccolo né troppo grande, senza dubbio manipolabile e indiscutibilmente percepibile direttamente e senza alcuno sforzo da parte dell'occhio umano. Dunque, dal punto di vista strettamente fisico o formale, nulla impedisce che la tela dipinta da Orferscu possa essere considerata o meno un'opera d'arte.
Cosa capita invece se si analizzano alcuni degli artefatti – lungi da me la tentazione di definirli a priori opere d'arte - realizzati dal sottoscritto con la complicità di un docente e di un team di ricercatori del dipartimento di fisica del Politecnico di Torino? Prendiamo alcuni casi concreti: Dimensione attuale è un artefatto realizzato nel 2007 e consiste in una 'nanolitografia' del continente africano di 300 x 280 nanometri su una piccola superficie metallica di circa 2 cm per 2. Vi state forse chiedendo che cosa vede un qualsiasi essere umano che si trovi di fronte, anche a pochi centimetri, il piccolo wafer di silicio litografato? Assolutamente nulla. Per l'occhio umano, l'opera è totalmente inaccessibile. Nemmeno un falco potrebbe distinguerebbe qualcosa. Non basterebbe nemmeno una lente d'ingrandimento, e tantomeno un microscopio ottico. La litografia dell'Africa è dannatamente, infinitamente piccola. Per riuscire a visualizzarla dovremmo disporre di un microscopio elettronico a scansione, ma anche se fossimo così ben dotati dovremmo armarci di una pazienza infinita perché l'Africa, facendo le debite proporzioni, è talmente piccola che cercare un oggetto di 300 x 280 nanometri su una superficie di 2 cm per 2 è molto più complicato che trovare un ago in un pagliaio. Se vi state chiedendo che senso abbia un oggetto del genere, pensate al significato che intendo trasmettere: la dimensione attuale dell'Africa va misurata su scale nanometriche. Sebbene occupi una superficie di tutto rispetto sulle mappe geografiche, l'Africa è invisibile agli occhi dei più.
Ma passiamo oltre, e consideriamo un secondo artefatto nato dalla collaborazione con il team del Politecnico di Torino: una serie di impronte micrometriche impresse su un wafer di silicio. L’opera, intitolata Oltre le colonne d’Ercole, intende simboleggiare il superamento di un limite, quello della visibilità a occhio nudo e della percezione legata ai sensi, e soprattutto i primi passi dell’essere umano e in particolare dell’arte nell’universo dell’infinitamente piccolo. Anche dal punto di vista delle dimensioni possiamo parlare di primi passi: in confronto alle dimensioni nanometriche di Dimensione attuale, si potrebbe dire che Oltre le colonne d’ercole è un’opera gigantesca: le impronte sono grandi qualche micron, e nel complesso la passeggiata è lunga circa 2 centimetri. In ogni caso, a occhio nudo si fa fatica a vedere qualcosa: in particolari condizioni di luce si riesce a intravedere una serie di puntini che formano una linea serpeggiante, ma nulla più.
È solo grazie alle quattro immagini in bianco e nero ottenute con un FESEM - esposte, nel caso del premio San Fedele di Milano, ad integrazione dell’opera – che è possibile mettere in luce i dettagli: su un paesaggio che appare lunare si distinguono chiaramente i segni degli scarponi lasciati da qualcuno, ma non solo, si riconosce la pressione esercitata dal peso del corpo sul terreno: le impronte non sono semplicemente ‘disegnate’ sono davvero ‘impresse’, hanno profondità.
Sono anche, infine, i primi passi dell’arte oltre il limite del visibile: opere che ci sono, esistono, ma si sottraggono allo sguardo, si negano alla vista: lì, l’occhio bulimico contemporaneo non può arrivare. Costantemente bombardato da una sequenza infinita di sollecitazioni, di fronte a opere invisibili l’occhio deve arrendersi alla sua temporanea inutilità.
Non ci resta che fare un ultimo esempio, e provare poi a trarre qualche conclusione. Tra gli artefatti realizzati recentemente ce n’è uno dedicato nello specifico a Maurizio Ferraris e ai temi discussi precedentemente. L’opera si intitola Artwork e consiste in una frase litografata su un wafer di silicio che recita: This is not an artwork. In altre parole, in questo caso l’intento è quello di creare una sorta di contraddizione o cortocircuito interpretativo: un oggetto, una cosa, un artefatto che si definisce opera d’arte ma che consiste in una frase che nega ciò che il titolo afferma. Poichè Ferraris sostiene che un’opera d’arte è tale solo se è direttamente percepibile dai sensi, se è osservabile direttamente ed è manipolabile, ho pensato di realizzare un’opera che dese un po’ di filo da torcere al nostro concittadino filosofo.
Con la descrizione di Artwork si conclude questo veloce excursus nelle opere invisibili realizzate a partire dal 2007. Che significato attribuire a questo genere di espressione artistica? Ha senso presentare delle opere che di primo acchito sono impenetrabili all’occhio umano? Chiariamo subito un fatto fondamentale: la dimensioni micro o nanometrica delle opere non è fine a se stessa. L’intento non è quello, riduttivo, di entrare nel guinnes dei primati per aver relizzato le opere più piccole del mondo. Al contrario, ogni opera ha un preciso significato, che viene esplicitato anche attraverso la dimensione dell’opera,
Se quindi ogni opera, presa singolarmente, cerca di offrire un nuovo punto di vista sul mondo, un’interpretazione dell’esistente, è altrettanto vero che a livello generale uno degli obiettivi di queste opere d’arte invisibili è quello di mettere in discussione uno degli assunti fondamentali dell’arte e dell’estetica: la dittatura dell’occhio. Le opere realizzate con la collaborazione del Politecnico di Torino sfuggono alla visione, si negano all’osservazione diretta; a quelle dimensioni, l’occhio bulimico contemporaneo, sollecitato da una crescita ipertrofica degli stimoli visivi, non può in alcun modo arrivare. L’occhio, da protagonista unico e assoluto, diventa elemento superfluo, marginale, secondario, non più essenziale.
E allora, creare opere invisibili significa forse voler estromettere l’atto della visione dall’esperienza artistica? Significa negare la rilevanza dei sensi nel rapporto con le opere d’arte? Non credo proprio. In primo luogo perchè questi artefatti, sebbene invisibili ad occhio nudo, non significa che non esistano. La scritta This is not an artwork è stata effettivamente incisa sulla superficie di silicio: è una traccia fisica, una cosa, e non un’idea, un concetto o l’ennesima vuota provocazione dell’arte contemporanea; inoltre, l’opera è stata concretamente realizzata all’interno di laboratori specializzati, grazie all’utilizzo di strumenti ad hoc maneggiati da ricercatori con specifiche competenze.
La Nanoarte vuole, al contrario, porre l’accento su una visione - e più in generale un rapporto con l’arte - non superficiale ma più attenta e approfondita, una percezione che vada oltre l’occhio e coinvolga in misura preponderante l’organo che più di ogni altro ci permette di osservare e interpretare il mondo, il cervello. La Nanoarte – intesa come produzione di opere infinitamente piccole – si vuole configurare, paradossalmente, come l’esaltazione della visione, e non la sua negazione. Scrive a questo proposito la critica d’arte Maddalena Mazzocut-Mis: ‘come nel sentimento del sublime, così nella modalità di fruizione che la mostra ci propone, il collasso preliminare è necessario per l’acquisizione di una diversa consapevolezza sentimentale legata a un processo di fruizione stratificato. La messa in scacco dei sensi – la vista che non vede nulla – e dell’immaginazione – che non immagina nulla – è pregiudiziale al risultato della fruizione. Le opere di Scali e Goode impongono tale sacrifico al fine di esaltare, in secondo momento e a un secondo livello, le potenzialità della fruizione’.
Oltre a minare la dittatura dell’occhio, le opere d’arte invisibili a occhio nudo si contrappongono frontalmente al gigantismo e alla grandeur dell’arte contemporanea. Mi spiego meglio: l’arte attuale soffre di ipertrofismo. Fiere d’arte immense, che ospitano migliaia di opere affastellate una accanto all’altra come sugli scaffali del più banale e scontato ipermercato; biennali di arte contemporanea che spuntano come funghi in ogni angolo del mondo e fanno a gara ad invitare quanti più artisti possibili, appartenenti alle più svariate correnti e discipline; artisti paragonabili a rockstar, più interessati alla vendita delle loro opere che preoccupati di trasmettere nuovi messaggi, visioni del mondo alternative, punti di vista rilevanti. Queste tendenze di contro non fanno altro che mettere sempre più l’accento sull’arte intesa come mercato, svilendone l’aspetto culturale.
Perchè se è vero che l’arte è tuttora un ottimo business, se è vero che è considerata un bene rifugio e rappresenta un settore economico rilevante per paesi dalla tradizione riconosciuta come l’Italia e la Spagna, è altrettanto vero che ha sempre meno peso e rilevanza dal punto di vista culturale.
La Nanoarte intende proporre un esplicito processo di ridimensionamento dell’arte contemporanea: un’espressione artistica che rinuncia al gigantismo, al protagonismo, all’esibizione e alla provocazione fini a se stesse, all’impoverimento dei contenuti. alle velleità del mercato, allo strapotere dei critici e delle gallerie; la nostra è un’arte che prova ad eliminare tutto il superfluo per esaltare quelle che per noi sono le caratteristiche indispensabili dell’espressione artistica: la capacità non solo di sorprendere e meravigliare, ma di far riflettere, di proporre la visione del mondo da un’angolatura diversa, di andare oltre la superficie patinata delle immagini, di suscitare sentimenti, perplessità, dubbi e delle opere sfruttando i limiti e le potenzialità dell’essere umano.
Bibliografia
Ferraris, Maurizio – La fidanzata automatica, Bompiani, Milano 2007
Ferraris, Maurizio – Estetica razionale, Raffaello Cortina editore, Milano 1997
Raimondi, Stefano – Nanoarte, vedere l’invisibile, Skira 2007
Heidegger, Martin – L’origine dell’opera d’arte, La Nuova Italia, Firenze, 1968
Feynman, Richard P. – Sei pezzi facili, Adelphi, Milano, 2000
Feynman, Richard P. – Plenty of room at the bottom, Pasadena, 1959
Taniguchi, Jiro - On the basics concepts of nanotchnology, Tokio 1974
Gibson, James J. – Un approccio ecologico alla percezione visiva, Il Mulino, Bologna, 1979
Kant, Immanuel – Critica del giudizio, Bompiani, Milano 2004